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Wallace Stevens: ovvero... l'elegante discreto. PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 11 Novembre 2011 00:00

di Franco Romanò

Wallace Stevens è diventato negli ultimi decenni, un poeta sempre più letto e ammirato in tutto il mondo. In Italia, meno celebre di Pound ed Eliot, sì è conquistato un pubblico sempre più numeroso. Secondo Frederick Jameson Wallace Stevens Stevens è l'ultimo dei classici.

La fortuna di Wallace Stevens è cresciuta lentamente nel tempo. Schivo e aristocratico, egli mantenne sempre rapporti cordiali ma distaccati con l'ambiente letterario e tale atteggiamento, in una società sovraesposta come quella statunitense, dove tutto tende a diventare spettacolo, fa di lui un raro esempio di mimetismo, seppure non così estremo come nel caso dei suoi contemporanei Salinger e Marianne Moore, con la quale peraltro il poeta di Hartford intrattenne un lungo e interessante epistolario, rimasto per lungo tempo sconosciuto. Quanto alla sua notorietà in Italia, dobbiamo considerare che vi è stato un asse privilegiato di lettura della poesia anglo-americana nel nostro paese, intorno alla coppia Eliot-Pound.

Tale binomio ha così tanto dominato che, per il pubblico che va oltre la cerchia degli specialisti, soltanto alcune altre opere si sono imposte; e qualche movimento, ma per ragioni spesso estranee alla poesia. È stato così per l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (anche per merito di Fabrizio de Andrè), per la Beat Generation, per la letteratura afro-americana o per la coppia maledetta Silvia Plath-Anne Sexton. In un simile contesto non stupisce che poeti come Stevens o Moore, abbiano faticato a farsi strada.

 

Tuttavia, va considerato anche il fatto che, pure negli Stati Uniti e pur avendo conseguito premi prestigiosi e tenute lezioni all’università, la fama la considerazione di entrambi si è fatta strada fra mille difficoltà. T.S. Eliot, il primo insieme ad Auden, a scoprire l’importanza di Marianne Moore, le dedicò un famoso saggio critico nel quale l’affermazione più significativa è forse la seguente: “un poeta dovrebbe prima di tutto essere giudicato importante per ciò che dà alla lingua di appartenenza nel momento storico in cui scrive.) (1) Se sposiamo la tesi eliotiana, possiamo dire senza ombra di dubbio che Wallace Stevens e Marianne Moore siano stati fra i pochissimi che abbiano dato davvero tanto alla lingua e in modo magistrale. Nel momento in cui l'inglese si affermava sempre di più come mezzo veicolare mondiale subendo un processo d'impoverimento sia nel restringimento del lessico, sia nella semplificazione delle strutture sintattiche, la lingua ampia e generosa di poeti come Wallace Stevens, Marianne Moore, Ezra Pound T. S. Eliot e W. Auden, hanno dato un contributo fondamentale nel mantenerne la ricchezza, sottraendola a un destino di pura comunicazione, addirittura manualistica in alcuni casi specifici (si pensi al linguaggio informatico o a quello delle inutili conversazioni da tavola, a margine di convegni e altro).

Frederick Jameson, parlando di Stevens, lo definisce l’ultimo dei classici: tradotto nel nostro gergo di redazione, Stevens (e Moore, aggiungo io), sono gli ultimi prima del diluvio. La lingua del poeta di Hartford ha saputo mantenere una grande ricchezza lessicale, modulata sui toni di una poesia alta, che arriva a sfiorare il linguaggio filosofico; mentre in altre parti della sua opera egli ha saputo sfruttare tutte le risorse del linguaggio più comune, ricorrendo a un'affabulazione tranquilla, dal tono medio, dai colori tenui e pieni di chiaroscuri; caratteristica questa, delle ultime grandi opere a cominciare da Una sera qualunque a New Haven. La tesi Eliot sulla lingua, tuttavia, non può esaurire l’intero dibattito critico sul Stevens e Moore, per chi non appartiene a quell’universo linguistico, sebbene possa leggerli nella loro lingua originale. Si apre qui una seconda e importante questione. Vi sono poeti importantissimi per la cultura e la lingua a cui appartengono e soltanto per quella; altri che lo sono per un universo più ampio. Alcuni, pochissimi, riescono a superare tutti i confini e a imporsi come poeti trasversali alle lingue e alle culture. Io penso che Stevens sia fra questi e per rendersene conto basta scorrere l'indice del Wallace Stevens Journal.

Hartford, ConnecticutIl poeta di Hartford suscita un interesse vivissimo ormai ovunque, si può forse dire che la sua importanza, ancora relativamente poco cresciuta in senso verticale, si sia invece amplificata in senso orizzontale e cioè nello spazio, tanto da coprire il mondo intero. Per quanto mi riguarda non sono affatto sorpreso da questo fatto. Wallace Stevens è uno dei pochissimi poeti del secolo scorso capaci di parlare a generazioni diverse e a latitudini diverse; per noi che apparteniamo non solo alla cultura italiana ma a quella occidentale in senso lato un poeta come lui solleva interrogativi e problematiche che sono brucianti per noi, sia che le si guardi dal punto di vista della civiltà letteraria cui apparteniamo, sia che si allarghi l'orizzonte fino ad abbracciare il valore conoscitivo e non soltanto estetico che la grande poesia possiede. Sono queste le ragioni per cui Stevens è ascoltato sempre di più e un po' ovunque. Lo Stevens che vorrei proporre a Overleft è il poeta che ci porta ai confini estremi della nostra civiltà letteraria e anche civiltà tout court per ripensarla e anche per andare oltre la stessa. La mia, tranne che per un testo iniziale, sarà una lettura che privilegerà i suoi poemi maggiori e questo è già un argomento di discussione poiché non si tratta di una scelta condivisa da tutta la critica. Per molti la sua grandezza sta nelle pieghe brevi dei suoi testi apparentemente più dimessi e minori.

Dicevo in precedenza che Stevens si presta a letture molteplici; il tempo ce ne darà molte altre, come accade solo con i grandi. UN FIORE DI SERRA VAGAMENTE PROFUMATO. Wallace Stevens nasce nel 1879 a Reading in Pensylvania e cioè in quella parte degli Stati Uniti d'America più legata alle origini inglesi e in senso lato europee. (3) I suoi studi di legge sono regolari, si laurea ad Harvard ed esercita l'avvocatura a New York nel 1916. Nel 1919 si trasferisce ad Hartford dove trascorrerà l'intera vita, a parte qualche viaggio, e dove morirà nel 1955. Il periodo newyorchese fu decisivo per la sua formazione, nonostante la brevità della permanenza. A New York, peraltro, Stevens sarà di casa per tutto l'arco della sua vita; Hartford si trova a poca distanza dalla metropoli e il poeta ha sempre apprezzato questa preziosa opportunità di poter vivere in un'appartata cittadina di provincia, ma vicina alla rutilante frenesia newyorchese. Tornando alla sua formazione fu nella città atlantica (che non dobbiamo considerare, come oggi noi la viviamo e cioè come la capitale dell'Occidente, ma solo una grande metropoli statunitense), che egli entrò in contatto con il mondo artistico e con la sua prima grande passione: la pittura. Stevens si considerò sempre un poeta della vista, come dirà anche nelle sue lezioni di poetica e l'arte pittorica ha una parte rilevante in tutto il suo percorso. A New York frequenta il Greenwich Village e si traveste da dandy; un dandy ironico, incline a prendersi in giro. Entra in contatto con l'espressionismo e l'avanguardia e con quell'atmosfera da bohème un po' inventata e importata dalla Francia: la New York che egli incontra è paradossalmente provinciale!

Fin dagli esordi la sua presenza nel mondo artistico sembra distratta, ma sufficientemente attenta da fargli comprendere che l'ambiente del Greenwich non risponde alle sue esigenze d'autore. Nello stesso tempo studia profondamente il teatro giapponese, manifestando da subito una curiosità che si spinge oltre i confini della cultura occidentale. Come poeta esordisce tardi e su rivista: precisamente nel 1914 quando ha già 35 anni. La sua prima raccolta pubblicata è Harmonium, nel 1923; dopo di essa un lungo silenzio che verrà rotto nel 1936 con la pubblicazione di Ideas of order. Un'ultima data vorrei ricordare: il 1919, anno in cui pubblica sulla rivista Poetry un testo a mio avviso decisivo per comprendere da quale nucleo tematico e problematico prende avvio la sua poesia: Anecdote of the jar. Torneremo su questo testo, ma prima fermiamoci un attimo. In quale contesto letterario e culturale esordisce il poeta Stevens? Gli intellettuali statunitensi di quegli anni sembrano appartenere tutti a un'unica schiera: si sentono, seppure per ragioni diverse, orfani dell'Inghilterra, dell'Europa intera o dell'Africa, se sono di colore. Tendenzialmente ripudiano tutti, in modi più o meno netti, le loro radici americane: o perché le sentono già tradite (è il caso di Pound), oppure perché si sentono sradicati in una nazione che non possiede una storia; tanto meno una storia culturale. Quanto ai neri, mai entrati nell'American dream, molti di loro sognano di ritornare nelle terre d'origine. Un episodio illuminante può chiarire quanto sto dicendo ben più che le mie stesse parole. Quando nel 1916, il Governo degli Usa sceglie momentaneamente la neutralità piuttosto che entrare in guerra a fianco dell'Inghilterra, Henry James rifiuta la nazionalità americana e sceglie quella inglese. In sostanza, dopo oltre cento anni dalla proclamazione dell'Indipendenza, il più grande romanziere statunitense del suo tempo si sentiva più inglese che americano! Ma James è solo la punta dell'iceberg: Eliot, nato nel Missouri, sceglie l'Inghilterra come patria letteraria d'adozione e lì nasceranno i suoi capolavori a cominciare dalla Waste Land, pubblicata nel 1922. E insieme a lui Pound, con la sua aspirazione a una poesia universale; Hemingway, perennemente in fuga dagli Usa e forse anche da se stesso; per finire con l'ossessione erotico sentimentale di Henry Miller, che lo porta nei bordelli di Parigi come si ritorna a una grande madre.

Tutto ciò può apparire assurdo per noi contemporanei, abituati a considerare la cultura americana debordante e dominante! Ma lascia perplessi anche se collochiamo in quel periodo storico tale fenomeno. In fin dei conti gli Usa avevano già dato nel secolo prima poeti straordinari come Walt Whitman ed Emily Dickinson, filosofi come Emerson, scrittori come Mark Twain e Hawthorne, pensatori come Thoreau; ma tant'è. Opposta a questa schiera di ‘anti americani’ ce n'era un'altra in formazione ma ancora silente. Sarebbe esplosa più tardi e il suo grande capo sarebbe stato William Carlos Williams. E' la schiera dei cosiddetti nativi, che rivendicano la loro appartenenza alla cultura e alla poesia statunitense. E' una schiera che sarà venata anche da un sottile filo nazionalista, che, durante la guerra fredda, diventerà, in alcuni, violentemente anticomunista. Molti di loro sono romanzieri: William Faulkner, John Dos Passos, lo stesso John Steinbeck, tanto per fare alcuni esempi; non è un caso che molti venissero dal sud. Ancora una volta Stevens si trova spiazzato. Lontano dagli uni e dagli altri ho il sospetto che li guardasse tutti con ironia e anche con una certa perplessità. Amava certamente il New England, ma lo amava per la sua tranquillità, per la bellezza della sua natura e anche perché era un luogo appartato riservato come lui: ma Stevens non era certo un Wasp, ma neppure un bostoniano aristocratico come James.

D’altro canto la seconda schiera, peraltro appena nata non poteva convincerlo per altre ragioni, sebbene qualche debito nei confronti di William Carlos Williams, il nostro ce l’abbia. Troppa carne, troppo sangue, troppe tinteWilliam Carlos Williams. 1903 circa espressioniste nella loro narrativa, troppo furore! In una parola: troppo del sud! Il suo esordio tardivo da un punto di vista editoriale è dovuto anche a questo sentirsi fuori posto un po' ovunque. Per un poeta l'habitat in cui depositare i propri versi è molto importante e l'isolamento può essere un'arma a doppio taglio. Nel caso del poeta di Hartford credo sia stata un'evenienza molto felice. Possiamo immaginare cosa volesse dire per un autore di lingua inglese pubblicare nel 23 la sua prima opera, un anno dopo l'uscita de La terra desolata di Eliot! Il rischio era quello di essere tacciati da epigoni, se troppo vicini a un poeta che era già considerato un maestro; oppure da ribelli sciocchi se troppo lontani da lui. Passare inosservato fu la forza di Stevens.

Quando la critica cominciò ad accorgersi della sua opera, la raccolta Harmonium aveva già avuto il suo tempo per essere digerita e il poeta se n'era già andato per la propria strada. Stevens cominciava ad essere visto, ma con una certa circospezione. Ho voluto intitolare questa parte del saggio con una battuta molto significativa che circolava su di lui. Proprio così veniva definito il poeta di Hartford dalla critica: un fiore di serra vagamente profumato. Perché Stevens è così decentrato rispetto alla temperie del suo tempo; almeno per quello che riguarda le increspature superficiali, molto meno se si scende in profondità? È bene ritornare allora a quel testo cui ho già accennato, pubblicato nel 1919 dalla rivista Poetry e intitolato Anecdote of the jar. E' un testo brevissimo che riporto per intero. I placed a jar in Tennessee And round it was upon a hill It made the slovenly wilderness Sorround the hill. The wilderness rose up to it, And sprawled around no longer wild. The jar was round upon the ground And tall and of port in air. It took dominion everywhere The jar was grey and bare. It did not give of bird and bush, Like nothing else in Tennessee. (2) Il tema di questo componimento verte su uno dei tanti contrasti latenti intorno ai quali ruota e medita la poesia di Stevens: ordine e caos, oppure natura selvaggia ed elemento umano. Non è difficile trovare i termini che si contrappongono nel testo: jar e wilderness. Tuttavia se di guarda meglio la varietà di significati possibili di queste parole, cominciano a venire fuori alcune sorprese: occupiamocene allora più dettagliatamente.

Se si sta al dizionario il termine ‘natura’ sfiora ma non tocca direttamente la parola ‘wilderness’: è l’aggettivo sostantivato ‘wild’ che ha una precisa curvatura naturalistica, mentre ‘wilderness’ è un vocabolo più concreto che definisce il territorio selvaggio, disabitato, non coltivato. Il vocabolo è molto meno evocativo e più comune, intermedio, direi quasi prosaico e adatto a formare una coppia asimmetrica con ‘jar’: un barattolo, infatti, non è l’opposto simmetrico dello spazio incolto. La curvatura che assume la parola wilderness si precisa ancor meglio se si guarda all’aggettivo con cui essa è accoppiata nella seconda strofa: ‘slovenly’. Apparentemente si tratta di un’inutile ripetizione dal momento che la parola inglese significa ‘sciatto’ ‘trasandato’ e solo in terza istanza disordinato. Slovenly, invece, serve a Stevens per avvicinare sempre più la parola wilderness al suo terzo significato, quello di ‘landa desolata’. Priva dell’elemento umano? L’umano aleggia eccome in questa poesia ma vedremo in che modo. Stevens sembra sì alludere a ordine e caos, ma lo fa in modo così obliquo da far pensare che ci sia altro sotto.

E dell’altro infatti c’è se si torna alla parola jar’ che non ha solo il significato che sembra ovvio, tanto che quasi tutte le traduzioni insistono nel tradurre il termine con la parola italiana ‘barattolo’ a volte aggiungendo per maggiore precisione ‘di vetro’. La parola inglese ‘jar’ infatti è anche un termine onomatopeico che significa ‘suono stridente e disarmonico, dissonante, come quello fatto da un oggetto che viene sfregato contro qualcosa.’ Stevens, sfruttando a fondo la molteplicità di significati dei sostantivi inglesi, mette qui in scena una complessità di senso molto elevata. L’elemento umano rappresentato dal barattolo non sembra portare ordine, bensì una disarmonia, un suono stridente, mirabilmente coerente per altro con le scelte lessicali compiute dal poeta. Prendiamo infatti il primo verso: ‘I placed a jar in Tennessee’ seguito nel secondo verso dalla parola ‘wilderness’: il ruolo delle sibilanti evoca certamente il frusciare di alberi, il vento, o anche il silenzio della natura incontaminata, mentre la parola ‘jar’ spezza l’armonia con un suono, appunto, dissonante. Ritorniamo ora all’inizio di questa lirica. L’uso del ‘simple past’ (passato remoto) e del soggetto ‘I’, danno un tono solenne ma anche misterioso alla poesia. Il simple past è il tempo della narrazione mitica: e chi è poi questo misterioso ‘Io’ che ha posto il barattolo nel Tennessee? Se la scelta verbale ci proietta nel tempo astorico della favola, del racconto orale, questo andamento solenne contrasta con il titolo ed anche con l’oggetto concreto della visione. ‘Anecdote’ è una parola prosaica la cui traduzione è scontata, mentre dal canto suo ‘barattolo’ non è un oggetto qualunque e astorico, non è un prodotto metafisico della civiltà o del lavoro umano astratto: si tratta di un manufatto. La tensione fra il tempo verbale e l’oggetto concreto della visione è massima. L’oggetto della visione, ‘ il barattolo’, è sopra una collina circondato dalla landa desolata; ciò che mette in fuga ‘wilderness è proprio ‘jar’, l’elemento umano: ma di che umano si tratta? Nel ritrarsi della ‘wilderness’ c’è qualcosa di sinistro, sembra una fuga disordinata ed infatti l’inizio dell’ultima quartina lo testimonia: ‘It took dominion everywhere’. ‘Il barattolo prese il dominio ovunque.’

Qui Stevens usa un’espressione che ricalca il linguaggio politico, ma che incarna anche l’idea di un’azione di forza. Facciamo un passo indietro. La conclusione della seconda quartina suona così: ‘The jar was round upon the ground/ And tall and of a port in air’. La ripetizione con rima interna è un richiamo martellante, evoca una presenza sinistra, prepara l’ultima quartina preannunciando il dominio del barattolo, ben saldo sulla terra ma anche in alto. Si trova lì perché la collina è alta o per qualche altra ragione? All’inizio non vi è dubbio che il barattolo si trovi sulla cima di una collina, ma ora esso è in alto anche perché domina. E come se non bastasse ‘port’ e ‘portly’ sono un segnale di arroganza: port è la persona che si gonfia il petto ma anche la sentinella militare che guarda il territorio. I barattoli si sono moltiplicati: è una collina di barattoli ciò che Stevens vede!

Ma continuiamo: ‘The jar was grey and bare’ (il barattolo era grigio e spoglio) scrive il poeta. L’aggettivo ‘bare’ può sembrare a prima vista una scelta gratuita associata ad un barattolo. ‘Bare’ infatti è usato per costruire fruste metafore autunnali. Se però lo poniamo in connessione con l’aggettivo ‘slovenly’ precedentemente accoppiato a ‘wilderness’ci rendiamo conto che Stevens ha costruito una straordinaria similitudine interna al testo: la landa è desolata rispetto alla natura tanto quanto il barattolo lo è nei confronti dell’umano. Jar non porta ordine, ma una desolazione di tipo diverso, creata dall’uomo. Stevens dopo avere evocato l’ordine toglie ogni dubbio sul significato reale di ‘jar’. L’ordine è solo una maschera perché ‘jar did not give of bird and bush’ (il barattolo non ha nulla a che vedere con il bosco e con l’uccello’. Esso non domina solo sulla landa desolata ma anche sulla natura che si ordina da sé. Siamo all’epilogo. Così come il viaggio testuale era iniziato con un ritorno indietro imprecisato nel tempo mitico della narrazione e in quello storico della nascita del manufatto, Stevens lo chiude con un bruciante ritorno al 'qui e ora’ cioè al presente del Tennessee e vi torna con un finale enigmatico che rilancia tutta la questione.

Egli infatti non vede solo il presente e cioè che nulla più del barattolo è oggi più estraneo al Tennessee, ma anche il futuro, allorché più nulla avrà a che fare con bird e bush, cioè con la natura incontaminata. La sua poesia vive nel mezzo, corre da un punto all’altro del tempo che lega insieme mito e aneddoto, storia e cronaca, presente passato e futuro. La poesia non si ferma su alcuno di questi punti ma li ripercorre tutti e li fa risuonare ma in modo dissonante. E’ la disarmonia e non l’ordine il tema di questa lirica, una disarmonia intervenuta nel rapporto fra l’umano ed il suo ambiente, oppure se si vuole fra natura e realtà. L'io che campeggia in questo testo non è dunque lirico ma per nulla assente; in realtà è un noi, l'indicazione apparentemente impersonale di un soggetto collettivo che ha introdotto una disarmonia. A conclusione di questa analisi e prima di proseguire il discorso sulla parabola stevensiana vorrei offrire la mia traduzione di questo testo: Aneddoto della disarmonia. Misi un barattolo in Tennessee Ed era rotondo sopra una collina Fu così che la desolata landa Circondò quella collina. Si protese verso di essa la terra selvaggia, ed intorno si disperse domata. Il barattolo era rotondo sopra la terra Ed alto in cielo a far la sentinella. Prese dominio in ogni luogo Il barattolo era grigio e spoglio. Nulla aveva a che vedere con il cespuglio e con l’uccello Come nient’altro nel Tennessee. Se questo è l’aneddoto che il poeta ci racconta quale è la scena maggiore? La disarmonia, la rottura di un equilibrio armonico.

William WordswotrhE’ il tema della caduta cui il poeta risale, ma non nel senso religioso del termine. Il manufatto è un prodotto industriale, è il frutto e anche se vogliamo il simbolo di una seconda natura, creata dall'uomo occidentale. Il poeta torna a questa tematica è l'ancora a un tempo storico preciso, segnato da un evento - la nascita della società industriale - che aveva impressionato un altro prima di lui, un poeta che Stevens ha amato molto e al quale ha guardato costantemente come a un maestro: William Wordsworth. E' proprio dalla riflessione sulla poesia della prima generazione di romantici inglesi che prende le mosse la parabola poetica di Stevens; una parabola che lo porterà molto lontano. Il manufatto porta il marchio del lavoro industriale e qualcuno ha visto nella collina di barattoli anche una rappresentazione delle alte ciminiere delle fabbriche o del cumulo di rifiuti. Senza arrivare a tanto è indubbio che Stevens pensi proprio al suo grande predecessore e all’elemento che ha turbato un equilibrio nel rapporto fra l’umano ed il naturale. Tuttavia nel modo di tornare a quel momento storico e alla moderna caduta si palesa subito la differenza la distanza che lo separano da Wordsworth. Se la natura dipinta dal grande romantico inglese è un mondo splendente, lussureggiante, dai colori forti, cui si contrappone il grigio ed orrido mondo della produzione industriale, la natura di Stevens può essere anche una ‘wilderness’; oppure il giardino elegante ma immobile di Sunday Morning.

Il poeta statunitense non ha bisogno d’immaginarsi il paradiso terrestre, immagine di un mitico altrove da cui il poeta di Hartford si distaccherà sempre più. La disarmonia può introdursi anche laddove il paesaggio è desolante, la caduta riguarda il rapporto fra l’uomo e l’ambiente, ma quest’ultimo non deve essere per forza di straordinaria bellezza, può essere ‘plain’ e cioè normale o addirittura piatto, un aggettivo che Stevens userà sempre più spesso e ne vedremo la ragione. Da questo punto di partenza del poeta, Stevens ripenserà tutta la tradizione precedente e successiva ripercorrendola a modo suo e distanziandosi ogni volta dagli esiti appena conseguiti; in un movimento che sembra sempre ricominciare tutto daccapo. La metamorfosi continua sembra essere infondo la molla vitale che spingerà la sua poesia ai grandi esiti finali; ma questa è già materia dei saggi che introdurranno le traduzioni dei testi che riproponiamo alla lettura e alla riflessione.

 

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