Pagina 1 di 4 di Aldo Marchetti
In un recente libro sulla globalizzazione Luciano Gallino(1) sottolinea l’importanza di un fenomeno che sta avvenendo sotto i nostri occhi e al quale si presta assai poca attenzione: la recente formazione di una nuova classe operaia le cui proporzioni sono ormai incommensurabili a quella dell’Europa e del Nord America nel periodo della prima industrializzazione. A metà Ottocento, quando Marx scriveva "Il Capitale", i lavoratori dell’industria, secondo alcune valutazioni, ammontavano a qualche decina di milioni. Negli ultimi decenni, se comprendiamo i paesi dell’Asia, dell’America Latina, dell’Est Europeo, si stima che abbiano raggiunto un numero dieci o quindici volte maggiore. E’ bene precisare che mai come in questo caso l’espressione "classe operaia" va usata con la massima cautela e solo a patto di ricordare che ci troviamo in un immenso campo di differenze di lingua, cultura, religione, ideologia, morale, nazione, genere e storia antica e recente. E’ tuttavia ragionevole affermare che si è aperto negli ultimi decenni un nuovo capitolo di storia e che in uno sterminato perimetro si stanno sperimentando inediti e imprevedibili processi so
ciali.
Il problema posto da Gallino è del resto presente da tempo nella riflessione degli studiosi di Storia. In un dibattito aperto alcuni anni or sono dalla rivista "International Labor and Working Class History"(2), nel quale sono intervenuti tra gli altri Tilly, Wallerstein, Zolberg, Hobsbawm e Benaria, sono stati posti due quesiti legati tra loro: 1) Dato che sino a oggi l’esercizio dei diritti conquistati dal mondo del lavoro nei paesi occidentali ha richiesto la presenza dell’autorità riconosciuta dello stato-nazione, e visto che nel processo di globalizzazione la sovranità degli stati democratici viene messa in discussione, non esiste forse la possibilità che questi stessi diritti si allentino e vengano progressivamente meno?; 2) Nella storia dei paesi di vecchia industrializzazione la formazione delle moderne democrazie partecipative è stata fortemente influenzata dalla presenza di una classe operaia che, assieme alle rivendicazioni legate al lavoro, ha saputo mobilitarsi per obiettivi generali come l’innalzamento della scolarità, l’allargamento del diritto di voto, i diritti di cittadinanza legati al welfare, la parità uomo donna. La nuova classe operaia globale è destinata a seguire la stessa traiettoria o aprirà diversi e ancora sconosciuti sentieri? Come spesso avviene nelle dispute accademiche anche in questa gli studiosi si sono divisi tra ottimisti e pessimisti. Alcuni, come Tilly e Wallerstein, hanno evocato scenari particolarmente oscuri (perdita del senso del diritto, contrapposizione a livello globale tra una classe operaia bianca, garantita e omologata ai valori della media borghesia e un vasto proletariato di colore con conseguente combinazione di lotta di classe e conflitto etnico). Altri come Benaria e Hobsbawm, hanno lasciato acceso un lume di speranza (le lotte sociali non si sono ancora del tutto spente nelle vecchie metropoli e molti, anche nei paesi del nuovo mondo, stanno imparando a brandire l’arma dello sciopero con la possibilità quindi che in futuro si possa saldare un’alleanza tra vecchia e nuova classe lavoratrice a livello globale).
Di questo dibattito più che le risposte sembrano utili, per ora, le domande, che rappresentano un’essenziale intelaiatura per ogni ricerca in questo campo. Dal tempo in cui sono state formulate si sono andati accumulando dati, informazioni, pubblicazioni e testimonianze le quali richiedono ormai uno sforzo d’interpretazione che puòessere svolto solo da una rete sempre più vasta di soggetti interessati o coinvolti direttamente. In questa sede poniamo alcuni problemi su tre paesi del Sud-Est asiatico: Cina, Indonesia, Tailandia. Si tratta, come si vedrà, di considerazioni ancora schematiche con cui si vuole solo avviare una discussione che potrà essere ampliata nei prossimi numeri di OverLeft, cercando di catturare l’interesse di studiosi, analisti o semplici curiosi. Il primo aspetto della questione è quello delle culture politiche e ideologiche che influenzano le organizzazioni dei lavoratori e la loro azione collettiva. In un secondo passaggio ci soffermeremo sull’attività negoziale e sui conflitti accesi di recente nei paesi a cui abbiamo accennato.
In Cina, come è noto, le grandi riforme orientate all’economia di mercato sono state avviate nei primi anni Ottanta da Deng-Xiaoping dopo che l’ala maoista del partito comunista cinese era stata emarginata e ridotta al silenzio. E’ solo nel 14° congresso del partito tenuto nel 1992, tuttavia, che viene adottata la definizione di "economia socialista di mercato" come quadro concettuale di riferimento per l’iniziativa del partito e del sindacato. In questa cornice viene riconfermata la stretta dipendenza della ACFTU (All China Federation of Trade Unions, unico sindacato riconosciuto ufficialmente) dal partito guida. Benchè nominalmente autonomo, il sindacato (che con i suoi 134 milioni di iscritti è senz’ombra di dubbio la maggiore organizzazione sindacale al mondo) ha infatti compiti circoscritti e del tutto marginali che sono stati fissati dal Trade Unions Act del 1992. I dirigenti sindacali sia a livello centrale che periferico vengono nominati dal partito e ogni livello organizzativo inferiore (il sindacato cinese è articolato, come le nostre confederazioni, su piano territoriale o orizzontale e, allo stesso tempo, di categoria o verticale) dipende da quello superiore. A livello di stabilimento è il comitato di partito che nomina i rappresentanti sindacali ed è sempre il comitato che presenta davanti al management le lamentele e le richieste dei lavoratori anche se spetta al sindacato svolgere opera di mediazione tra le parti. In questo contesto i compiti riservati al sindacato sono quelli tipici dei regimi socialisti che spesso sono stati racchiusi nell’immagine della "cinghia di trasmissione": diffondere tra i lavoratori i valori sociali e politici, disseminare la linea del partito, stimolare la produzione, spingere al raggiungimento degli obiettivi previsti dai piani di produzione nelle imprese statali, incoraggiare una stretta disciplina di fabbrica, promuovere comportamenti corretti e una salda moralità. "Dobbiamo proteggere il partito comunista e la produzione delle imprese perchè il fiume non ha acqua se gli affluenti sono in secca": questa affermazione, tratta da un discorso del segretario nazionale del sindacato (che curiosamente fa riferimento all’antichissima civiltà fluviale cinese), esprime in una buona sintesi l’obiettivo del sindacato: appoggiare il partito guida e allo stesso tempo, quasi le due cose non fossero distinguibili, lo sviluppo economico del paese. A livello provinciale e aziendale tuttavia il sindacato svolge tutta una serie di compiti di servizio che sono di essenziale importanza: gestione degli assegni di invalidità, assistenza ai lavoratori infortunati, facilitazioni nell’acquisto dei generi alimentari, asili nido, scuole e corsi professionali. Nelle imprese di stato inoltre i rappresentanti sindacali partecipano alla discussione del budget annuale e dei piani di produzione proponendo soluzioni in uno spirito di collaborazione da cui è esclusa la contrattazione nel senso che noi attribuiamo a questo termine. Nelle multinazionali straniere questo modello di embrionale concertazione viene ovviamente a mancare mentre è spesso lasciato qualche spiraglio alla negoziazione di tipo occidentale. Benchè i compiti del sindacato siano quindi parzialmente diversi a seconda del tipo di proprietà dell’impresa, e malgrado la ACFTU abbia dichiarato, negli ultimi comgressi del 2002 e 2005, di volersi rendere autonoma dal partito per svolgere solo un ruolo di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, di fatto in Cina il sindacato è tuttora saldamente ancorato al vecchio modello che possiamo definire una sintesi di solidarietà nazionale e filosofia produttivistica.
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