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Un libro di Bellocchio - pag. 4 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
Un libro di Bellocchio
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Tutte le pagine

 

3. In Eventualmente, a proposito di romanzo, si leggeva un breve testo intitolato, per l'appunto, Romanzo. Come altre prose, sembra consistere in un semplice aneddoto, qualcosa che sta tra lo spunto autobiografico e l'apologo (o per usare un’espressione, naturalmente riduttiva, della prefazione al libretto: «tra la saggistica e il cabaret.», p. 7). Con l'amico romanziere che, di anno in anno, con insistenza gli chiede «a che punto è il romanzo», il nostro cerca di essere rassi­curante, smentisce l'ipotesi che tiene in ansia l'amico (quella di star scrivendo un romanzo); tuttavia non riesce del tutto convincente:

[...] poiché il mio primo e unico libro di genere narrativo è quasi di trent'anni fa, egli ha ragione di nutrire qualche allarme: in un tempo così lungo si può anche fare qualcosa di non banale, di non del tutto effimero. Sui suoi colleghi, romanzieri professionisti che sfornano un libro ogni due-tre anni, è tranquillissimo.

 

Il lettore di Bellocchio difficilmente si lascerà andare, davanti alla scena di Romanzo, a brillanti ipotesi sul conto del narratore dei Piacevoli servi, cosi reticente: congetture di sapore proustiano (di opere a campata amplissima, esistenziale), riferimenti a Salinger o teorie in stile Blanchot sembrano poco confacenti all'ironia dell'autore, che come sappiamo con il non-pubblicato e il non-scritto è perfetta­mente a suo agio. Anche qui, del resto, l'io è defilato e non si scom­pone, una specie di cartina di tornasole che con il solo accento e l'impostazione del discorso ci svela l'ordine reale delle cose: al cen­tro invisibile del testo è il romanziere, di cui pur nulla è detto in forma diretta. L'ellissi è la figura dominante, ma proprio per questo il «non del tutto effìmero» (alcunché di virtuale e inesistito) che potrebbe esser concepito negli anni del silenzio è sufficiente a irradia­re su tutta la prosa una coloritura ironica a largo raggio, senza per­dono: assolutamente e obbligatamente effimero è l'universo in cui vive il romanziere, perciò condannato all'ansia, al perenne allarme; assolutamente e obbligatamente banale è la fiera della cultura mer­cificata. Due tempi si confrontano e confliggono, inconciliabili, nel breve spazio dell'incontro. E se dovessimo sottolineare, in questo passo, una parola-chiave, sarebbe professionisti. Qualifica in appa­renza neutra, è il segno della massima distanza del romanziere — in quanto sintomo sociale — dall'universo di Bellocchio: non è solo l'appartenenza all'industria culturale, con i suoi ritmi produttivi, a es­sere nel mirino, e nemmeno l'ineluttabile insulsaggine che ne carat­terizza i prodotti, tanto più omologati quanto più "aggiornati", ma l'incessante e vuota vita artificiale, destinata a soddisfare bisogni inutili (e solo quelli), che costituisce lo scopo stesso della professione. Tutto quello che è essenziale, tutto quel che potrebbe dirci qualcosa di noi, ne è escluso a priori.

Quanto a Proust, però, a dire il vero qualcosa da osservare io penso che ci sarebbe. Il primo frammento di Minima moralia di Adorno, che s'intitola Per Marcel Proust, inizia cosi: «II figlio di genitori bene­stanti che, non conta se per talento o per debolezza, prende una professione, come si dice, intellettuale, quella dell'artista o dello stu­dioso, si trova particolarmente a disagio tra coloro che portano il nome stomachevole di colleghi.» C'è aria di famiglia — o no? — tra queste parole19 e lo spirito di Romanzo. Prosegue poi Adorno:

 

Non solo gli [al «figlio» benestante] si invidia la sua indipendenza, si diffida della serietà delle sue intenzioni, e si sospetta in lui un inviato segreto dei poteri costitu­iti. Questa diffidenza è bensì prova di risentimento, ma sarebbe, per lo più, giusti­ficata. Ma le resistenze vere e proprie sono altrove. Anche l'attività spirituale è diventata, nel frattempo, “pratica”, un'azienda con rigida divisione del lavoro, branche e t;em>numerus clausus. Chi è materialmente indipendente e la sceglie perché rifugge dall'onta del guadagno, non sarà incline a riconoscere questo fatto. E perciò sarà punito. Non è un professional: è considerato, nella gerarchia dei concor­renti, come un dilettante, indipendentemente dalla quantità delle sue conoscenze, e, se vuoi far carriera, deve battere, in ostinazione e chiusura mentale, anche lo specialista più borné. La sospensione della divisione del lavoro, a cui egli tende, e che la sua situazione economica gli consente, entro certi limiti, di realizzare, è particolarmence sospetta; in quanto tradisce la ripugnanza a sanzionare il tipo di lavoro imposto dalla società; e la competenza trionfante non tollera queste idiosin­crasie. La scompartimentazione dello spirito è un mezzo per liquidarlo dove non è esercitato ex officio, e un mezzo che funziona tanto più egregiamente in quanto colui che denuncia la divisione del lavoro (anche solo in quanto il suo lavoro gli procura piacere) scopre - dal punto di vista di quella - punti deboli che sono inseparabili dai momenti della sua superiorità20.

Non voglio sostenere che il profilo sociologico qui tratteggiato da Adorno corrisponda punto per punto a quello di Piergiorgio Belloc­chio, né sopravvalutare le tangenze con Proust, ma che il quadro in cui si colloca l'attività dello scrittore-saggista presenti dei nessi con quello qui designato dai Minima moralia mi sembrerebbe ottuso negarlo. La Recherche è, tra le altre cose, un impressionante campio­nario di tipi sociali e un catalogo di incontri, dialoghi, ipotesi, fin­zioni e tranches de vie che presuppongono un osservatore sempre sulla soglia, un fenomenologo partecipe eppure straniato in quanto inclassificabile entro gli schemi d'inclusione/esclusione stabiliti dal­la società (la divisione del lavoro, infatti; e chi non ricorda i ritratti dei "professionisti" che vi campeggiano?). Forse i libri di Bellocchio rivendicano il dilettantismo, l'attenzione al particolare, all'emarginato, all'anacronistico, e l'ironia come difesa dalla falsità e dal con­dizionamento sociale, proprio perché il numerus clausus è diventato nel frattempo legge universale, indiscussa e planetaria.

A veder bene, entro questa cornice di riferimenti si può situare anche, da un punto di vista più generale, il tentativo che a livello di pensiero essi presuppongono, al di là degli obiettivi polemici con­tingenti: salvare un'istanza di tipo "illuministico" - nel senso egualitario e dell'emancipazione — svincolandola dal progressismo, quest'ultimo essendo la bestia nera del nostro (qui il punto d'incontro con Leopardi, e nel Novecento con Timpanaro). Sul piano stilistico il comporre per frammenti, ognuno con un titolo che rimanda al concreto e a una specie di diario-enciclopedia del vissuto-alienato (Dietologia, Neppure guardano, Mangiare male...) ha i precedenti più memorabili proprio in Adorno e Horkheimer (in Italia solo For­tini ne ha dato esempi riusciti), i quali a loro volta avevano assimila­to la lezione proustiana (e di Nietzsche) e sulla "dialettica dell'illuminismo" hanno pur detto qualcosa. Né importerebbe sottolineare quanto sia giusta e fondata, anzi sacrosanta, la protesta di Bellocchio nei confronti della razionalità strumentale e del dominio da essa im­posto sulla natura e sugli uomini, non fosse questa una di quelle posi­zioni sottoposte a tabù, travolte dall'offensiva congiunta di "destra" e "sinistra" (ma soprattutto di quest'ultima, e specie nella perniciosa variante italico-postcomunista), proprio nel momento in cui le conse­guenze più evidenti, e tragiche, del pensiero progressista si sono im­poste in senso "globale", dispiegando tutta l'aggressività di un proget­to che ormai non ha più nemmeno da nascondere le proprie sangui­nose contraddizioni. Del resto a tratti Bellocchio sembra volerci far credere che le sue sono idiosincrasie da ritardatario, tratti caratteriali non immuni da un patologico arcaismo; ma sono, queste, "astuzie" della ragione passionale, che possiamo ravvisare anche in quei suoi avi prima evocati, che avevano ben visto cosa si celasse dietro la favola delle magnifìche sorti. Una salutare paura è il sentimento che molte pagine di Bellocchio sembrano consigliarci di fronte alla macchina della modernità tecnologica e ai suoi inossidabili adepti21.



 

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