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Un libro di Bellocchio - pag. 3 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
Un libro di Bellocchio
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pag. 3
pag. 4
pag. 5
pag. 6
pag. 7
Tutte le pagine

 

I letterati mettono spesso in scena eleganti pantomime sul tema delle mancate pubblicazioni e degli esordi, in genere fornendosi ca­librate giustificazioni ex-post o alibi pregnanti, legati al proprio pre­destinato itinerario spirituale. Non pubblicare è comunque una sor­ta di rituale propiziatorio, il momento negativo di un'affermazione (avvenire); un passaggio a vuoto messo a profìtto. Non direi sia que­sto il caso: il rifiuto («non scrissi mai») ha in Bellocchio motivazioni profonde e in un certo senso permanenti, che saranno conservate stabilmente nell'officina d'autore. C'è in lui un lasciar perdere, una distanza anche nei confronti di sé che da una parte porta a ridimen­sionare il proprio ruolo, dall'altra potenzia il lavoro della negazione; e forse non è un caso se l'impegno pratico per l'allestimento dei «Quaderni», a un certo punto, ha preso nettamente il sopravvento sull' attività di scrittore e di critico. Intossicati di media come siamo, non riusciamo nemmeno a immaginare un modo d'essere intellet­tuale che non contempli presenza sulla scena e che, invece, tanto più presuppone la profondità, tanto più persiste nel distanziarsi dall'apparenza, per tener aperto un dialogo fecondo con zone mute o inesplorate, stabilire rapporti con menti eterodosse, indovinare nuove mappe del presente. L'episodio relativo all’Astuzia dovrebbe, allora, mettere in guardia sia chi tende a identificare tout court l'autore con l'intellettuale militante, sia chi all'opposto ne enfatizza la pigrizia come scrittore in proprio e l'intento - da lui stesso sottolineato17 - di estraniarsi rispetto al dibattito culturale corrente.

Come conciliare, poi, istanze cosi contraddittorie? Certo, l'epoca dei «Quaderni» (anni sessanta e settanta) e quella di «Diario» (ottan­ta), le due riviste fondate da Bellocchio, sono nella loro fisionomia (diciamo cosi) psicosociale già una risposta a questa domanda, corri­spondendo a momenti diversissimi nella Storia recente del nostro pa­ese; ma si faccia caso alla linea di continuità tra i due titoli: ambedue di basso profilo, tutt'altro che altisonanti o "impegnati". Date le coor­dinate culturali del fondatore, è legittimo richiamare a loro progeni­tori «L’istante» di Kierkegaard e «La fiaccola» di Kraus, ma questa nobilissima genealogia, pur significativa della strettissima relazione (quasi identificazione) tra scrittore e rivista, avallerebbe alla fine un'idea di segno presenzialista, "attivista" e quasi oratorio del nostro, mentre va ribadito che anche quando è più apertamente polemico e la pointe dell'ironia è più aguzza, egli sembra manifestarsi così, se non suo malgrado, con un vago sconcerto per dover intervenire, come per un non più rinviabile contrattacco — dopo aver troppo sopportato (e con ciò aver dato prova di tolleranza) — alla plateale invadenza dell'ipocrisia, e in particolare alla mancanza di senso del ridicolo di chi occupa il proscenio (il caso più vistoso è rappresentato, in Dalla parte del torto, da Eco, ma Bellocchio è capace di scovare dei tratti risibili persino in un autore amato come Bertolt Brecht).

C'è come un sostrato di omissis (o magari di no comment...) a far da tessuto connettivo all'affiorare episodico e discontinuo della voce dall'al di sotto; che detta beffarde epigrafi a un presente impertur­babile e indaffarato nella sua losca o semiconscia routine. Sul lungo periodo, e a prescindere dalla diversa conformazione dei libri, sia la scelta per l'attenuazione, sia l'accento sarcastico dominante in tante pagine, si possono leggere, in filigrana, come risposta istintiva ai modelli cristallizzati e pressoché connaturati, antropologicamente, alla società italiana, d'intellettuale: da una parte il letterato narcisista-elegiaco, legato a confraternite ma separato dal mondo concreto in cui si svolgono le esistenze degli uomini; dall'altro 1' opinion-maker saccente e al tempo stesso servile. Il senso delle proporzioni che fa­talmente affligge Bellocchio — a prender troppo sul serio certe cari­cature si rischia non solo di perder tempo, ma per cosi dire di auto-opprimersi inutilmente - non è un riflesso snobistico, quindi, ma se mai claustrofobico, in quanto ha a che fare con il dislivello tra il mondo piccolo, chiuso, prevedibile, vociante, serioso e autoreferenziale della cultura nostrale e quello vasto, aperto, inesauribile di cui la cultura vera è espressione. E proprio a questo punto, a me pare, interviene quel che vorrei chiamare, un po' provocatoriamente, il versante "romanzesco" della sua scrittura.

Mi spiego. È noto, ma ciononostante sottovalutato, il fatto che l'esordio di Bellocchio sia avvenuto con un libro di racconti: I piace­voli servi, del 196618. Riletto oggi, è un libro che colpisce per la prensilità nei confronti dei gerghi sociali e per il modo in cui l'io narrante si mimetizza in una voce, a essa asservendo trame ed effetti di realtà: una disposizione infrequente nella tradizione italiana, e più presente, per esempio, in quella inglese (Vanity fair è un titolo che suona in qualche modo familiare al lettore di Bellocchio), che a sua volta conferisce al testo una spiccata impronta "dialogica" nel senso di Bachtin, ovvero una permeabilità alle ideologie che però non comporta un annullamento in esse. Che c'entra tutto ciò con il saggismo? Nel caso di Bellocchio c'entra non poco, perché l'ipersensibilità per la sfera ideologica s'incarna nei suoi testi in personaggi, figure, dialoghi, e l'aforisma non è che la concrezione istantanea, la fissazione del movimento che aderisce al vissuto e, nell'aderirvi, scopre il carattere sociale (socialmente necessario, direbbe Adorno) dell’apparenza, la sua irrigidita nervatura epocale. Anche in Al di sotto della mischia è dal vissuto, o da un modo di dire che rinvia a strati memoriali e sociali, che traggono origine gran parte dei frammenti: Pensare in grande, II vecchio Ettore, Mazzini, Gratis, La merda in catte­dra..., e senza quei mini-racconti in cui niente è di troppo e tutto è essenziale, sino a far precipitare la storia in parabola, l'accensione po­lemica degli altri pezzi (con le tirate e i cataloghi di nefandezze che finalmente rispondono all'insolenza del mondo) avrebbe molto mi­nore efficacia, proprio perché quanto è limitato all'agenda culturale e al dibattito intellettuale può sempre cadere nel ricatto dell'astrattezza e nel gioco dialettico della societas dominante. Egli — l’io come stru­mento di questa operazione — può limitarsi a aprire per un attimo il sipario sulla scena, per uno scambio di battute o una telefonata inter­cettata per caso (si legga Due voci), ma questo - una luce romanzesca, densa e abbreviata, che giunge d'un tratto sul palcoscenico — è suffi­ciente a far balenare una serie di quinte, per cui senza accorgercene vediamo il presente in altra luce e il nostro passato in esso irredento, ed è un po' come se dietro a Beckett («Non ho parole» «Ben detto!») o Pinter ritrovassimo d'un tratto Cechov, sempre senza allontanarci da un orizzonte domestico o familiare. Già questo, quanti altri han sapu­to farlo, in Italia? E se questo affiorare di quinte, questo versante romanzesco-teatrale (che dalla stagione di «Diario» in poi diviene più evidente) assume ora un tratto malinconico, e si fa più insistente con il passare del tempo, una ragione c'è: è un modo, anche questo, per parlare, di traverso, del deserto del nostro presente.



 

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