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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag. 10 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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D. Ne Il lungo XX secolo hai delineato tre possibili esiti del caos sistemico all’interno del quale l’onda lunga della finanziarizzazione iniziata negli anni ’70 porterebbe a : un impero mondiale controllato dagli Stati Uniti,  a una società di mercato mondiale in cui nessuno stato domina sugli altri, oppure a una nuova guerra mondiale che distruggerebbe il genere umano. In tutte e tre le eventualità il capitalismo,  nel modo in cui storicamente si è sviluppato sarebbe scomparso. In Adam Smith a Pechino tu concludi che, con il fallimento dell’amministrazione Bush, la prima ipotesi si può cancellare, mentre restano le altre due. Non esiste, però, una possibilità,  all’interno del tuo sistema di pensiero, che la Cina possa emergere quanto prima come nuova potenza egemone, sostituendo gli Stati Uniti, senza scalfire le strutture del capitalismo e del territorialismo da lei descritte? Tu escludi una possibilità di questo genere?

 

R. Non la escludo, ma cominciamo col puntualizzare quanto veramente ho detto. Il primo dei tre scenari che ho delineato alla fine de  Il lungo XX secolo vedeva  un impero mondiale governato non solo dagli Stati Uniti, ma dagli Stati Uniti  insieme ai loro alleati europei. Non ho mai pensato che gli USA  sarebbero stati così imprudenti da cercare di  promuovere da soli un  Nuovo Secolo  Americano – progetto già abbastanza folle di per sé e naturalmente subito rientrato. Esiste di fatto all’interno dei responsabili della politica estera statunitense  un gruppo che vuole rappezzare i rapporti con l’Europa che erano tesi a causa dell’unilateralismo dell’amministrazione Bush. E’ una possibilità che ancora esiste, anche se ora è meno probabile di prima.  Il secondo punto è che la società del mercato mondiale  e l’accresciuto potere della Cina nell’economia globale non si escludono a vicenda. Se si considera come la Cina si è comportata storicamente con i suoi  vicini, si vede che i rapporti si sono sempre basati più sugli scambi economici che sulla potenza militare : ed è ciò che avviene anche oggi.  Spesso si fraintende questo: si pensa che io dipinga i cinesi come  più morbidi o migliori rispetto all’Occidente, non è questo il punto. Il problema è la governance di un paese come la Cina, di cui abbiamo già parlato. La Cina ha una tradizione di ribellioni che nessun altro paese di quelle dimensioni  e così densamente popolato ha mai affrontato.  I suoi governanti  sono ben consapevoli della possibilità di una nuova invasione dal mare  - in altre parole, dagli USA.  Come faccio notare nel Capitolo X di Adam Smith a Pechino, gli Stati Uniti hanno diversi programmi  sul modo di gestire la Cina, nessuno dei quali è del tutto rassicurante per Pechino.  A parte il piano Kissinger, che  prevedeva una cooptazione,  gli altri ipotizzano o una nuova Guerra fredda  contro la Cina oppure il coinvolgimento della Cina  in una serie di guerre con i vicini, nelle quali gli USA avrebbero il ruolo di “terzo felice”. Se, come penso,  la Cina emergerà come nuovo centro dell’economia globale, il suo ruolo sarà del tutto differente  da quello dei suoi predecessori.  Non solo per i contrasti di tipo culturale, radicati di fatto nelle differenze storico-geografiche, ma proprio a causa della diversità della storia e della geografia dell’Oriente asiatico, che avranno un forte impatto delle nuove strutture dell’economia globale.  Se la Cina sarà egemone, lo sarà in modo molto diverso dagli altri.  Per un fattore soprattutto, il potere militare sarà molto meno importante del potere culturale ed economico – di quello economico in particolare.  Dovranno giocare la carta dell’economia molto più di quanto abbiano mai fatto gli USA, gli inglesi o gli olandesi.

 

D. Prevedi un’unità più vasta in Estremo Oriente? Si dice, ad esempio, della creazione di una specie di  Fondo monetario internazionale, di un’unificazione delle monete – tu vedi la Cina al centro di una  posizione egemonica in Estremo Oriente o semplicemente come solista? E in tal caso, come si collega tutto ciò con il crescente nazionalismo in Corea del Sud, in Giappone e in Cina?

R. In definitiva la cosa più interessante in Estremo Oriente è il modo in cui l’economia viene condizionata dai rapporti e dalle politiche degli stati tra loro, a dispetto dei loro nazionalismi. I nazionalismi sono ben radicati, ma dipendono da una ragione storica che in Occidente spesso si dimentica: Corea, Cina, Giappone, Thailandia  e Cambogia erano stati nazionali ben prima  che esistesse un solo stato nazionale in Europa. Tutti questi hanno storie di attriti di carattere nazionalista che li hanno messi l’uno contro l’altro in un contesto di natura eminentemente economica. Di tanto in tanto scoppiavano guerre e l’atteggiamento dei vietnamiti nei confronti della Cina, o dei coreani nei confronti del Giappone è profondamente radicato nella memoria di quelle guerre. Al contempo sembra essere l’economia a dominare. E’ stato sorprendente vedere come la recrudescenza nazionalista in Giappone verificatasi sotto il governo Koizumi sia stata improvvisamente frenata quando si è capito che il Giappone  voleva fare affari con la Cina.  Anche in Cina c’è stata una forte ondata di manifestazioni anti-giapponesi, ma poi sono finite. Il quadro generale in Estremo Oriente si presenta con una  profonda propensione nazionalista, ma contemporaneamente  esiste  la tendenza a superarla in nome degli interessi economici.

 

D. L’attuale crisi del sistema finanziario mondiale sembra essere la più clamorosa conferma che mai si potesse immaginare delle tue previsioni teoriche sui tempi lunghi. C’è qualche aspetto della crisi  che ti abbia sorpreso?

R. Le mie previsioni erano molto semplici. La ricorrente tendenza alla finanziarizzazione  è stata, come diceva Braudel, un segno dell’autunno di una particolare espansione materiale concentrata particolarmente in uno stato. Ne Il lungo XX secolo io chiamavo l’assalto alla finanziarizzazione il segnale della crisi di un regime di accumulazione e facevo notare che con l’andar del tempo – di solito circa entro mezzo secolo– ne sarebbe seguita la crisi  terminale. Agli Stati che in precedenza si erano affermati come  egemoni fu possibile individuare sia il segnale della crisi sia, successivamente, la crisi terminale. Quanto agli Stati Uniti, ho ventilato l’ipotesi che il segnale di crisi si fosse registrato negli anni ’70 e che la crisi terminale dovesse ancora venire – ma sarebbe arrivata. In che modo sarebbe arrivata? L’ipotesi di base  era che tutta quell’espansione finanziaria fosse fondamentalmente insostenibile poiché metteva a disposizione della speculazione un capitale superiore  a quello che  avrebbe potuto  essere effettivamente gestito- in altri termini, c’era la tendenza che queste espansioni finanziarie sviluppassero bolle di vario tipo. Io prevedevo che quell’espansione finanziaria  avrebbe finito per portare a una crisi terminale, dato che le bolle sono insostenibili oggi come lo sono state in passato. Non avevo previsto, però, le bolle nei  dettagli: il boom delle società di servizi via internet, le  dot.com, oppure la bolla edilizia. Inoltre sono stato ambiguo su quale fosse il punto a cui eravamo arrivati negli anni ’90, quando ho scritto Il lungo XX secolo. In qualche modo pensavo che la Belle Epoque degli Stati Uniti  fosse ormai finita, mentre invece era solo all’inizio. Era stato Reagan a prepararla provocando una  importante recessione, che aveva poi creato le condizioni per la successiva espansione finanziaria; ma era stato Clinton a controllare  nei fatti la Belle Epoque, che è poi terminata con il crollo finanziario del 2000, soprattutto del NASDAQ. Con l’esplosione della  bolla edilizia a cui stiamo assistendo, la crisi terminale dell’egemonia finanziaria statunitense è divenuta del tutto evidente.

 



 

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