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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag. 9 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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D. Ma da Adam Smith a Pechino si evince che a noi occidentali occorrerebbe qualcosa come una rivoluzione industriosa e dunque questa categoria non riguarda la Cina, ma potrebbe estendersi molto di più.

 

R. Sì. Ma la tesi fondamentale di Sugihara è che lo sviluppo tipico della rivoluzione industriale, cioè la sostituzione del lavoro con le macchine e l’energia non presenta solo limiti ecologici, come sappiamo, ma anche limiti economici.  Infatti i marxisti dimenticano spesso che l’idea di Marx  della composizione sempre più organica  del capitale, che porta alla riduzione del profitto, deve fare i conti sostanzialmente con il fatto che incrementare l’uso delle macchine e dell’energia  intensifica la concorrenza tra i capitalisti  al punto da  ridurre il profitto, portando per di più alla distruzione dell’ambiente.

Sugihara sostiene che la separazione tra management e lavoratori, la crescente importanza del  management  rispetto al lavoro e la perdita di ogni tipo di specializzazione nel lavoro, compresa quella del management, come si confà alla rivoluzione industriale,  presenta dei  limiti. Nella rivoluzione industriosa c’è una  crescente mobilitazione  di tutte le risorse  interne, a cui consegue lo sviluppo o per lo meno il mantenimento dell’abilità gestionale dei lavoratori.  In definitiva  i vantaggi di questa abilità gestionale diventano più importanti  dei vantaggi derivanti  della separazione  tra  pianificazione e realizzazione, tipica della rivoluzione industriale. Penso che abbia ragione su di un punto, e ciò è essenziale per comprendere l’attuale ascesa della Cina, cioè che  durante il processo di proletarizzazione si è conservata sostanzialmente questa abilità di autogestione pur in presenza di  limiti molto seri. Ora la Cina è in grado di avere un’organizzazione dei processi lavorativi  che si basa più che  altrove sull’abilità di autogestione  dei lavoratori. Probabilmente nella nuova situazione della Cina  questa è una delle principali componenti della sua competitività sempre più accentuata.

 

D. Che ci  potrebbe far  tornare alla politica del Gruppo Gramsci per quanto riguarda i processi lavorativi e l’ autonomia?

R. Sì e no. Ci sono due diverse forme di autonomia. Ora stiamo parlando di autonomia gestionale, mentre l’altra era autonomia delle lotte, nell’antagonismo dei lavoratori  verso il capitale. In quel caso l’autonomia era : come formulare il nostro programma in modo tale da  unire i lavoratori nella lotta contro il capitale, piuttosto che dividere il lavoro  creando le condizioni  perché il capitale  riaffermasse la propria autorità sui lavoratori sul luogo di lavoro? La situazione attuale è ambigua. Molti guardano all’autogestione  cinese considerandola un modo per subordinare il lavoro al capitale – in altre parole il capitale risparmia sulle spese di gestione. Quest’abilità gestionale va contestualizzata – dove, quando e a quale scopo. Non è tanto facile  classificarla in un modo o nell’altro.

 

D. Hai terminato “Le diseguaglianze di reddito a livello mondiale” nel 1991 sostenendo che, dopo il crollo dell’URSS, l’inasprimento e l’ampliamento dei conflitti  nei territori poveri di risorse nel Sud del mondo – la guerra Iran-Irak o la Guerra del Golfo sono da considerarsi emblematiche – costringono l’Occidente a creare delle strutture embrionali di  governo mondiale per gestirli: il G7 come comitato esecutivo della borghesia globale, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale come Ministero delle Finanze, il Consiglio di sicurezza come Ministero della Difesa . Tu ipotizzi che queste strutture nel giro di quindici anni  potrebbero finire in mano a forze non conservatrici. Anzi, in Adam Smith a Pechino parli di  una società divenuta mercato mondiale  come  speranza futura, nella quale non esiste più alcuna potenza egemone. Che relazione esiste tra le due e cosa ne pensi ?

R. In primo luogo non ho detto in realtà che sarebbero sorte delle strutture di governo mondiale in seguito ai conflitti nel Sud del mondo. Molte di loro erano organizzazioni nate a Bretton Woods, istituite dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale come meccanismi necessari  ad evitare  i trabocchetti dei mercati autoregolamentati dell’economia globale e come strumenti di governo. Quindi dal dopo- guerra in poi sono esistite delle strutture embrionali di governo mondiale. Negli anni ’80 si è verificato uno stato di turbolenza e di instabilità crescenti, di cui questi conflitti nel Sud  erano un aspetto, perciò queste istituzioni hanno  dovuto gestire l’economia mondiale in modo diverso rispetto al passato. Potrebbero finire nelle mani di forze non conservatrici? Il mio atteggiamento verso queste istituzioni è sempre stato ambivalente, poiché sotto molti aspetti esse riflettono un equilibrio di potere tra gli stati del Nord e del Sud – all’interno degli stati del Nord, tra Nord e Sud e così via.  Non  esisteva  alcun principio che escludesse la possibilità che tali istituzioni si potessero veramente  attivare  per governare l’economia globale  in modo tale da promuovere una più equa  distribuzione del reddito su scala mondiale. Comunque è accaduto esattamente il contrario.  Negli anni ’80  il Fondo monetario internazionale  e la Banca mondiale sono divenuti  gli strumenti della contro-rivoluzione  neoliberista, promuovendo in tal modo una distribuzione  più iniqua del reddito. Ma poi, come ho detto, alla fine è accaduto che non  si è verificata tanto una  distribuzione più iniqua del reddito tra Nord e Sud, ma una grande  biforcazione all’interno dello stesso Sud, con l’Estremo Oriente che andava a gonfie vele e l’Africa meridionale  che andava malissimo e con altre regioni qui e là che si collocavano a metà.

Che relazione ha tutto ciò con il concetto di società di mercato mondiale  di cui tratto in Adam Smith a Pechino?  A questo punto è chiaro che uno stato mondiale, del tipo più embrionale e confederale possibile  sarebbe molto difficile da realizzare.  E non è ipotizzabile in modo serio per il futuro. Ci sarà una società di mercato mondiale nel senso che gli stati  si rapporteranno tra loro attraverso i meccanismi del mercato  che non sono affatto autoregolamentati, ma vengono regolamentati.  Questo valeva anche per il sistema sviluppato dagli Stati Uniti, che vedeva un processo estremamente regolamentato dove l’eliminazione di tariffe, di aliquote, di restrizioni sulla mobilità del lavoro veniva sempre negoziata dagli stati – in modo più rilevante da Stati Uniti ed Europa e poi tra questi e gli altri. A questo punto la questione è quale tipo di regolamentazione verrà introdotta per evitare un crollo del mercato  pari a quello degli anni ’30. Quindi la relazione tra i due concetti è che l’organizzazione dell’economia mondiale  si fonderà principalmente sul mercato, ma con un’importante partecipazione degli stati nella regolamentazione dell’economia

 



 

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