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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag.2 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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pag. 12 - Biografie . Commenti
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D. Tu fosti uno dei nove docenti arrestati per attività politica durante  la repressione del giugno 1966 sotto il governo Smith, vero?

R. Sì, ci tennero in prigione per una settimana e poi fummo espulsi.

 

D. Tu andasti a Dar es Salaam , che a quel tempo  sembrava essere un paradiso di scambi intellettuali, in un  certo senso.  Dicci qualcosa di quel periodo e della tua collaborazione con John Saul.

R. Furono giorni entusiasmanti, sia dal punto di vista intellettuale che politico. Quando giunsi a Dar es Salaam la Tanzania aveva conquistato l’indipendenza da qualche anno. Nyerere  favoriva una forma di socialismo di tipo africano. Nel periodo della rottura tra Cina e URSS manteneva una posizione equidistante ed intratteneva ottimi rapporti con i paesi scandinavi. Dar es Salaam divenne  l’avamposto di tutti movimenti di liberazione nazionale dell’Africa meridionale, dalle colonie portoghesi alla Rhodesia e al Sud Africa. Rimasi tre anni all’università e feci incontri di  ogni tipo: attivisti del Black Power statunitense, studiosi e intellettuali come Immanuel  Wallerstein, David Apter, Walter Rodney, Roger Murray, Sol Picciotto, Catherine  Hoskins, Jim Mellon, che fu poi uno dei fondatori dei Weathermen, Luisa Passerini che lavorava a una ricerca sul Frelimo e molti altri, tra cui, naturalmente, John Saul.

Lavorando con John a Dar es Salaam spostai i miei interessi dal reclutamento di mano d’opera ai movimenti di liberazione nazionale e ai nuovi regimi emergenti dalla decolonizzazione. Eravamo molto scettici sulla capacità di quei regimi di emanciparsi da quello che cominciava ad essere definito come  neocolonialismo e di mantenere le promesse di sviluppo economico. Ma tra di noi c’era una differenza che credo permanga tuttora: la cosa mi sconvolgeva assai meno di quanto non accadesse a lui.  Per me quelli erano movimenti di liberazione nazionale e non movimenti di carattere socialista, anche quando adottavano la retorica socialista. Si trattava di regimi populisti, perciò non mi aspettavo molto al di là della liberazione nazionale, che ambedue consideravamo di per sé molto importante. Ma se al di là di quello vi fossero possibilità di sviluppo di tipo politico rimase un motivo di contrasto tra di noi su cui scherziamo ancor  oggi quando ci incontriamo. Tuttavia i saggi che scrivemmo insieme erano da noi pienamente condivisi.

 

D. Al tuo ritorno in Europa trovasti un mondo molto diverso da quello che avevi lasciato sei anni prima?

R. Sì. Tornai in Italia nel 1969 e mi trovai subito immerso in due situazioni. Una fu all’Università di Trento, dove mi venne offerto un posto di assistente. Trento era allora il centro della militanza studentesca oltre a essere l’unica Università italiana a rilasciare la laurea in Sociologia. Il mio incarico era sostenuto dagli organizzatori dell’Università, tra cui Nino Andreatta, democristiano,  il social liberale Norberto Bobbio e Francesco Alberoni: era un tentativo di domare il movimento degli studenti reclutando un estremista. Al mio primo seminario c’erano solo quattro studenti, ma nel semestre autunnale , dopo la pubblicazione del mio libro sull’Africa, nell’estate del 1969, alle mie lezioni  c’erano quasi mille studenti. Il mio corso divenne un grande evento e spaccò persino Lotta Continua: la corrente di Boato voleva che gli studenti frequentassero le mie lezioni per sentire una critica di tipo radicale  alle teorie sullo sviluppo, mentre i seguaci di Rostagno cercavano di disturbare  lanciando sassi nell’aula dal cortile.

La seconda situazione fu a Torino, tramite Luisa Passerini, importante divulgatrice degli scritti situazionisti, che esercitarono notevole influenza su Lotta Continua in quanto essa si ispirava al Situazionismo. Mi spostavo da Trento a Torino, passando per Milano - dal centro del movimento studentesco al centro del movimento dei lavoratori. Mi sentivo attratto dal movimento studentesco e allo stesso tempo mi preoccupava il suo rifiuto della “politica”. A volte nelle assemblee vi erano militanti operai che si alzavano per dire :”Basta con la politica. La politica ci porta nella direzione sbagliata. Ciò che serve è essere uniti.” Per me fu un trauma notevole arrivare dall’Africa e scoprire che i sindacati comunisti erano considerati reazionari e repressivi dai lavoratori in lotta e che in questo vi era un consistente elemento di  verità. La reazione contro i sindacati del PCI si trasformò in una reazione contro tutti i sindacati. Potere Operaio e Lotta Continua si proponevano come alternativa sia ai sindacati che ai partiti di massa.  Insieme a  Romano Madera, che era ancora studente, ma anche quadro politico di indirizzo gramsciano – una rarità all’interno della sinistra extraparlamentare – cominciammo a pensare ad una strategia di carattere gramsciano  per il movimento.

Fu così che emerse per la prima volta l’idea di autonomia - di autonomia intellettuale della classe operaia. Oggi essa viene solitamente attribuita ad Antonio Negri, ma in realtà era nata  dall’interpretazione di Gramsci da noi elaborata nei primi anni ’70 nel Gruppo Gramsci, fondato da Madera, da Passerini e da me. Consideravamo il nostro principale contributo al movimento non come un sostituto ai sindacati o ai partiti, ma come un aiuto offerto alle avanguardie da parte di studenti e intellettuali perché si realizzasse la  lor o autonomia  - autonomia operaia –  attraverso la comprensione di un movimento più vasto a livello sia nazionale che globale  all’interno del quale si attuava la loro lotta. In termini gramsciani questo significava formare gli intellettuali organici  della classe operaia in lotta. A questo scopo costituimmo i Collettivi politici operai  (CPOS) noti come Area dell’Autonomia. Man mano che si sviluppava la loro pratica autonoma, il Gruppo Gramsci avrebbe esaurito il suo ruolo e avrebbe potuto sciogliersi. Quando il gruppo di fatto si sciolse nell’autunno del 1973, entrò in scena Negri e trascinò il CPOS e l’Area dell’Autonomia  in una direzione avventuristica molto lontana da quanto si era inteso all’inizio.

 

D. C’era qualcosa secondo te che accomunava le lotte di liberazione africane e quelle della classe operaia?

R. Ciò che le accomunava erano gli ottimi rapporti che mi permisero di intrattenere con  un movimento più ampio. Essi volevano sapere su quale base io partecipassi alla loro lotta. La mia posizione era la seguente: “Non intendo dirvi che cosa  fare, dato che voi conoscete la vostra situazione molto meglio di me. Ma io ho maggiori possibilità di comprendere il contesto più ampio entro il quale si sviluppa la lotta.” Cosicché il  nostro rapporto deve sempre basarsi su quanto voi stessi mi riferite  della vostra situazione  ed io vi dirò come essa si pone nei confronti  del contesto più ampio che voi non potete conoscere, o da  dove vi trovate potete vedere solo in modo parziale. Su questa base vi  furono sempre ottimi rapporti sia con il movimento di liberazione dell’Africa meridionale che con i lavoratori italiani.

Gli articoli del 1972 sulla crisi del capitalismo si fondavano  su questi presupposti(3). Ai lavoratori veniva detto: “C’è la crisi economica. Dobbiamo starcene tranquilli. Se continuiamo le lotte la  fabbrica verrà portata altrove.” Così  i lavoratori ci chiedevano: “Siamo in crisi?  E allora, che importa? Adesso dobbiamo starcene buoni solo per questo?” Gli articoli che comprendevano “Verso una teoria delle crisi capitalistiche” vennero concepiti all’interno di questa problematica e messi a punto dai lavoratori stessi, che dicevano:” Dicci che cosa sta accadendo nel mondo esterno e che cosa ci dobbiamo aspettare.” Il punto di partenza dell’articolo era: “ Le crisi hanno luogo sia che voi lottiate o no – non sono effetto della militanza operaia, oppure di “errori” nella gestione manageriale, ma sono alla base delle operazioni relative all’accumulazione capitalistica.” Quello era l’orientamento di partenza. Scrivevo agli inizi della crisi, prima che  si riconoscesse l’esistenza della crisi in atto. Divenne importante come schema di base  e mi è servito per monitorare negli anni quanto stava avvenendo. E ha funzionato abbastanza bene.

(3) v., in inglese, Arrighi, “Towards a Theory of Capitalist Crisis”, nlr 1/111, Sept.-Oct. 1978, prima pubblicato in Rassegna comunista, n° 2,3,4 e 7, Milano 1972-3.



 

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