Di Franco Romanò
Perché tornare a occuparsi di un uomo enigmatico e di un economista per lungo tempo dimenticato? Tanto più che la teoria economica appare ostica ai più. Cercherò di dirne le ragioni, evitando il più possibile argomenti troppo specifici.
Nel mondo rovesciato in cui ci capita di vivere, sono sempre più numerosi gli articoli e i saggi critici sull’andamento dell’economia e sulla teoria economica medesima, scritti da uomini di potere. Uno in particolare mi ha colpito perché al centro del suo discorso compare una metafora poco usuale in un uomo e mi piace pensare che senza il femminismo di mezzo, non gli sarebbe venuta in mente. Tanto più che Giandomenico Scarpelli, un dirigente della Banca d’Italia che si occupa di collocazione dei titoli di stato, è ritornato a occuparsi di teoria economica per aiutare la figlia a sostenere gli esami universitari. Al centro del suo discorso c’è una mirabolante cucina: il forno è acceso e va a mille, i fuochi pure, le pentole sono già pronte e così tutti gli accorgimenti tecnici più sofisticati; solo che non c’è più nulla da cucinare e infatti nel titolo del suo saggio l’economia odierna diventa una Ricetta senza ingredienti. Ecco, una prima risposta al quesito che ho proposto posto all’inizio potrebbe essere questa: perché l’economia di Sraffa, parte dagli ingredienti per arrivare alla cucina.
In economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: il grano, per esempio, oppure la tela, le stoffe e tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case e a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura: le strade, i ponti, le ferrovie, i beni che permettono di vivere. Questa è l’economia, ma è forse di ciò che si parla quando nella nostra contemporaneità si usa tale termine? Di questo si occupa la teoria economica? No: oppure, come accaduto in Italia dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, si nomina la sostanza fisica dei beni soltanto per registrare i danni, gli argini dei fiumi che collassano, i comportamenti anomali del clima, le morti sul lavoro. La pandemia da Covid 19 viene drammaticamente a confermare tutto questo a livello planetario. I beni sono naturalmente anche delle quantità e non solo qualità, cioè valori d’uso, su questo non c’è alcun dubbio; dunque la necessità di quantificarli e misurarli fa parte della natura fisica dell’economia, ma tale misurazione dovrebbe essere la conseguenza di una modalità di gestione delle risorse. Nelle scuole medie italiane s’insegnava un tempo l’economia
domestica. Tale disciplina era viziata dalla discriminazione di genere: era la materia che doveva preparare buone mogli, madri e massaie, cui spettava il ruolo di gestire la casa e la famiglia nella divisione sessuale del lavoro in una società patriarcale che era considerata naturale. La scelta di abolirla, però, fu del tutto sbagliata. Bisognava estendere alla popolazione scolastica maschile l’insegnamento dei rudimenti di economia domestica e di gestione della casa. La scomparsa di tale competenza necessaria ha contribuito fra l’altro a sequestrare l’economia politica relegandola, come il vecchio latinorum, in una regione incomprensibile ai più, gestita da una casta sacerdotale e di cui noi possiamo solo misurare gli effetti che produce: povertà, precarietà, odio sociale, pandemie, guerre e miseria.1
Qual è la domanda da cui Sraffa inizia il suo affondo nei confronti del marginalismo? Il capitolo iniziale di Produzione di merci a mezzo merci s’intitola: Industrie a prodotto singolo e capitale circolante. Il primo paragrafo di questa parte s’intitola Produzione per sussistenza. Il lessico usato ci riporta immediatamente ai fisiocratici e alla priorità che essi assegnano ai prodotti agricoli come base dell’economia e ci offre una prima risposta che disegna questo scenario:
Consideriamo una società primitiva che produce appena il necessario per continuare a sussistere. Le merci sono prodotte da industrie distinte e vengono scambiate l’una con l’altra al mercato che si tiene dopo il raccolto. Supponiamo da prima che siano prodotte due merci soltanto, grano e ferro. Entrambe sono usate, in parte per il sostentamento di coloro che lavorano il resto come mezzi di produzione …
Sraffa propone un esperimento mentale, tramite il quale possiamo ridurre l’economia al suo scheletro primario. Nel fare questo ci si trova proiettati in una società primitiva, ma basta dare un’occhiata ai valori numerici per capire che primitivo ha qui un senso totalmente diverso da quello che potremmo essere tentati di attribuirgli, così come non bisogna equivocare il termine tecnico sussistenza. Sraffa riscopre il valore dell’annualità, che ci riporta agli economisti classici, ma – mi permetto di aggiungere – anche al buon senso. A furia di parlare di derivati, di algoritmi che fanno simulazioni da qui ai prossimi dieci anni, ci siamo dimenticati che l’unità di misura più sensata per parlare di economia, è l’annualità; oggi come migliaia di anni fa e non vale obiettare che i raccolti avvengono in momenti diversi dell’anno e dipendono sempre meno dalla stagionalità, con l’avvento della globalizzazione. Si tratta di un sofisma perché ciò che conta nel discorso dell’annualità è la ciclicità del processo, che ha un tempo più o meno costante, naturalmente dipendente anche dai miglioramenti nei metodi, ma sempre tendenzialmente costante in un’epoca data. L’economia di Sraffa parte dalle condizioni minime di sussistenza di una società e primitivo vuol dire solo questo. Si può capire meglio cosa intendesse in un altro brano in cui scrive di voler delineare le linee portanti di un sistema economico, indipendentemente dai volumi prodotti. Quella che Sraffa indica come costante che non è sottoposta ad alcun cambiamento, è tale necessità riproduttiva o reintegrativa, che non dipende tanto dal volume prodotto, ma dalle scelte politiche di una società e dal concetto di equilibrio, sempre conflittuale, ma equilibrio. Il metodo di Sraffa inizia dal minimo di una proporzione necessaria che prevede una circolarità di risultato finale chiuso, aggiungendo di volta in volta al modello un solo elemento in più rispetto alle equivalenze precedenti, ma sempre a partire dalla condizione reintegrativa. Più che al calcolo tale atteggiamento si rifà al metron, la misura.2 Anche Keynes pensava qualcosa di simile, sebbene il suo concetto di equilibrio è stato equivocato come molti altri. Giorgio Lunghini, che abbiamo ospitato anni su questa rivista, ammoniva che in realtà Keynes è un illustre sconosciuto e dobbiamo essere molto grati ad Anna Carabelli, che ha colmato finalmente questa lacuna La citazione che segue, tratta dai suoi ultimi studi, è sufficiente per introdurre al pensiero largamente incompreso dell’economista britannico:
… la visione della razionalità del Trattato sulla Probabilità di Keynes è basata sulle nozioni aristoteliche di ragionevolezza ed esattezza. La ragionevolezza differisce sia dalla razionalità forte che dall’'rrazionalità, mentre l’esattezza differisce dalla precisione. Fin dall’inizio delle sue riflessioni sulla probabilità, Keynes rimane costantemente contrario a un concetto numerico e calcolabile di probabilità, tranne in alcuni casi molto limitati che sono logicamente irrilevanti per la macroeconomia. Keynes non è contrario all’uso della matematica in linea di principio, anche se preferisce la logica simbolica all’algebra e ai calcoli. È contro l’applicazione cieca della matematica alla macroeconomia e preferisce il discorso ordinario per evitare fallacie logiche e una falsa aria di precisione. Per lui, è meglio avere approssimativamente ragione che precisamente torto. Gli interessa l’esattezza, non la precisione.
Sraffa, d’altro canto, è stato guardato con circospezione e sospetto dal marxismo novecentesco, fatte salve alcune lodevoli eccezioni, perché nella sola opera pubblicata – Produzione di merci a mezzo merci – non adopera mai alcuni termini chiave - o sarebbe meglio dire icone - del linguaggio marxista: sfruttamento per esempio. Se è per questo, anche parole come capitale e finanza non trovano spazio nel libro e Sraffa peraltro ne spiega assai bene le ragioni nell’introduzione. Ora che il suo archivio è disponibile basterebbe una citazioni come quella che segue tratta dalle Lezioni sulle teorie del valore per dissolvere molti falsi problemi:
Tutto il prodotto appartiene al capitalista che ha anticipato i salari: ne ricava il profitto e con l’altra parte rimpiazza il capitale consumato … Non c’è mai un momento in cui il prodotto viene diviso fra lavoratori e capitalisti; le loro entrate si trovano ai lati opposti del processo produttivo, in relazione al quale vengono pagati
Sia Keynes sia Sraffa, pur non usando questo termine, hanno anticipato il discorso sulla complessità ed è per questa ragione profonda che oggi ritrovano ascolto. Si potrebbe obiettare, a questo punto, se siamo ancora in tempo per invertire la rotta e che senso abbia affidarsi a una logica improntata alla misura in mondo che della dismisura governata dalle banche ha fatto addirittura una fede religiosa. Il caos sistemico è in mezzo a noi e le turbolenze del clima, molte delle quali già irreversibili, nonché l’impoverimento globale – non solo economico - delle popolazioni lo dimostrano anche più della pandemia. Opporsi al caos secondo una modalità di tipo antagonista è peraltro un combattere contro i mulini a vento.
La mossa del cavallo necessaria può essere descritta come una sospensione attiva del giudizio, senza preoccuparsi se ciò che si sta elaborando non trova nel presente alcun ascolto possibile, o raro ma – specialmente – perché tale atteggiamento diventa essenziale per rifiutare prima di tutto le false dialettiche correnti.3
Sia Sraffa sia Keynes, tuttavia, non vanno considerati come due moderni critici dell’economia politica, ma come pensatori della riorganizzazione sociale e questo implica prima di tutto il rifiuto del primato dell’economico. In altra parte del suo testo maggiore Keynes definisce l’economia una scienza morale, neppure umana, ma morale, perché ha a che fare con scelte fra alternative irriducibilmente drammatiche perché basate su elementi disparati, eterogenei e conflittuali: il contrario della reductio ad unum da parte di un mercato assunto come un assoluto, ma anche una distanza irriducibile dall’empirismo e dell’utilitarismo britannici, cioè la filosofia che sancisce il primato dell’economia sulla società.
Concludo riportando la prima equazione del libro, come un invito ad andare avanti e anche lasciarsi prendere dalla magia di questi numeri, che un alone magico intorno a sé lo hanno di certo. Gli Arabi, cui in definitiva dobbiamo la matematica e l’algebra, lo sapevano bene; tanto che, se per noi occidentali esse sono una scienza esatta del calcolo, per loro erano anche un ramo della mistica.
- Supponiamo che nell’insieme, 280 quintali di grano (q) e 12 tonnellate di ferro(t) vengano usati per produrre 400 quintali di grano; mentre … 120 quintali di grano e 8 tonnellate di ferro per produrre 20 tonnellate di ferro. Le operazioni produttive dell’annata possono riassumerci nella tabella seguente:
280 q di grano + 12 t di ferro = 400 q di grano
120 q di grano + 8 t di ferro = 20 t di ferro.
…. Nulla viene aggiunto dal processo di produzione a quanto la società possedeva nel suo insieme
Esiste un’unica serie di valori di scambio, i quali, se adottati dal mercato, permettono di ristabilire la distribuzione originaria dei prodotti … questi valori scaturiscono direttamente dai metodi di produzione. Nel particolare esempio, che abbiamo dato, il valore di scambio che soddisfa a tale condizione è di dieci quintali di grano per una tonnellata di ferro.4
1 Come si è arrivati a questo? In una nota si possono dare solo alcuni spunti che riassumo negli effetti del combinato disposto fra il marginalismo, sorto in ambito accademico per contrastare il movimento operaio e il diffondersi del marxismo - come Sraffa stesso denuncia con molta ironia nelle sue Lezioni sulle teorie avanzate del valore - e il socialismo nella doppia versione socialdemocratica e sovietica, entrambe sfocianti in forme diverse di capitalismo di stato. La cattiva dialettica fra questi due poli, che si è risolta nel trionfo del capitalismo e nella rinuncia da parte della sinistra novecentesca a qualsiasi critica radicale, ha rinchiuso la stessa teoria economica in antinomie che emarginavano di fatto le elaborazioni più creative. Il marginalismo, dopo avere occultato la natura fisica dei beni economici dissolvendoli in un universo soggettivistico – sacrificio, astinenza e sovranità del consumatore - ha trasformato l’economia in qualcosa d’altro grazie a un doppio salto mortale. Con il primo essa diventa una scienza soggettiva del gusto, poi con il secondo salto con doppio avvitamento, una scienza esatta cui si può - anzi si deve - applicare la matematica delle scienze cosiddette dure: algoritmi, equazioni, simulazioni avveniristiche, che tuttavia non sono mai in grado di prevedere le crisi. Come si conciliano soggettivismo e matematica non chiedetelo ai marginalisti. A questo punto il gioco è fatto perché scompare del tutto la sostanza fisica dell’economia e del valore: quali beni e perché? Come si producono e da dove viene il loro valore? Come si distribuiscono? Come si conservano? Come si riproducono? Nel caso di Sraffa, infine, la sua lunga emarginazione fu dovuta anche alla convinzione, che pur dovendo ripartire dai classici e da Marx, un ritorno a loro sic et simpliciter non era possibile.
2 Il concetto di metron viene da lontano, addirittura da Solone e da Aristotele, ma è quest’ultimo che nell’antichità è uno dei pochissimi ad avere scritto qualcosa sull’economia che riguarda ancora anche noi. Meditando sui cambiamenti che stavano avvenendo nella società greca e che il filosofo vedeva con grande timore e preoccupazione, introdusse nell’Etica Nicomachea una distinzione fra il concetto di economia, intendendo con esso la cura della comunità e la crematistica cioè l’arte del fare i soldi in qualunque modo. La crematistica introduceva un elemento di dismisura che Aristotele condannava sul piano morale. Noi possiamo ben capire che la dismisura, il contrario del metron, con il capitalismo è diventato un meccanismo tendenzialmente impersonale, un automa ton.
3 La sospensione del giudizio può essere intesa come una scommessa pascaliana di tipo laico rivolta al di qua, simile per certi aspetti alla frase con cui Leopardi si congedava dai circoli fiorentini, declinando il loro invito a partecipare attivamente alle vicende risorgimentali, dicendo loro che preferiva scrivere per il secolo che sarebbe venuto. Furio Jesi, riprendendo il concetto di dialettica in stato di arresto di Walter Benjamin ha elaborato un percorso assai interessante sul piano filosofico e che può essere ricondotto a una strategia delle sospensione del giudizio.
4 Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo merci, Einaudi 1972, pp. 3-4. |