di Adriana Perrotta Rabissi
Scorza : rivestimento esterno di piante, pelle di frutti, pelle di animali, soprattutto rettili, apparenza, aspetto esteriore di persone
Scorza
L’aveva conosciuta durante una gita scolastica al Museo del Deserto a Tucson, due ore di viaggio in autobus, una breve sosta all’ingresso e poi via tra sentieri costeggiati da jumping cholla, grande il divertimento di fronte agli sforzi di turisti imprudenti alle prese con i ciuffi spinosi e dispettosi, all’inizio ridevano, dopo un po’ rimanevano sconcertati dal fatto di non riuscire a scuoterli via dalla stoffa, più si agitavano e più si riempivano, infine spazientiti e allarmati si guardavano le mani doloranti, piene di invisibile spini. L’unico momento noioso della mattinata era previsto fosse la conferenza sui rettili nella sala grande del Teatro del Museo, tappa obbligata del viaggio di istruzione, invece il Mostro di Gila l’aveva incantato. Appoggiato sul banco, molestato dal bastone brandito dall’erpetologa, che sollecitava i suoi lenti movimenti, lo rivoltava, lo pungolava per mostrare a un pubblico per metà affascinato e per metà disgustato la potenza delle mascelle, la lunghezza degli artigli arcuati, le squame della scorza dai brillanti colori aposematici, nero e giallo, con sfumature arancio. Il Mostro così inerme di fronte a chi sghignazzava, chi mostrava orrore, chi lo irrideva, gli aveva fatto pena. Gli risuonarono nelle orecchie per giorni le parole della donna che aveva illustrato la pericolosità del veleno, la presa dei denti incurvati, che si incastrano nella carne della vittima, senza che si riesca a allentare il morso, che aveva elencato, con un po’ di enfasi, a suo giudizio, il numero di persone morte per il veleno e quelle sopravvissute perché curate in tempo, ma a lungo in preda a atroci dolori.Ne aveva parlato in casa, l’unico che l’aveva ascoltato con attenzione era stato il nonno, che ricordava i racconti sentiti da bambino dai vecchi della riserva nella quale era nato e cresciuto, storie popolate da Mostri di Gila che sputavano veleno contro i malcapitati che li incontravano, che uccidevano con il respiro chi passava accanto a loro senza accorgersi della presenza su un albero, sotto un cespuglio, dietro un cactus. Ne aveva studiato sull’Enciclopedia il nome scientifico, Heloderma suspectum, l’habitat, le abitudini di vita, aveva scoperto con quante esagerazioni e inesattezze fosse stato presentato al Museo un animale timido, che sta spesso nascosto, difficile da incontrare se non di notte o di mattina presto. Non risultavano neppure persone morte a causa del suo veleno, unica verità il dolore acutissimo che provoca e lo stato di intossicazione che richiede terapie tempestive e intensive in ospedale.Negli anni si era convinto che il Mostro del Museo fosse un esemplare femmina, qualche volta immaginava che fosse fuggita dall’orrida erpetologa e si fosse rifugiata nel deserto circostante.
Aveva fantasticato di andare a rintracciarla, poi le vicende della vita l’avevano distolto dal proposito.
Infine vecchio e malandato, ormai in pensione, decise di inoltrarsi nel deserto intorno a Tucson, luogo consueto di passeggiate, scampagnate, biciclettate, prima con i compagni di scuola, poi con figli e infine con nipotini, per vedere almeno un esemplare fuori di cattività. Scelse una mattina molto presto, si mise grossi scarponi, cappello, guanti e giacca di pelle, si armò di un robusto bastone per estrema difesa, abbandonò i sentieri e le vie principali, consigliati dalle guide turistiche, per inoltrarsi tra cespugli, rocce e saguari, luoghi sempre accuratamente evitati fino ad allora.
Circondato dal silenzio, rotto da qualche fruscio e sibilo, cammina circospetto rischiando di inciampare in qualche radice affiorante dal terreno, di scivolare su un masso poco stabile, si azzarda perfino a scostare qualche grossa pietra, con grande circospezione, malgrado l’ora quasi antelucana non incontra nessun Mostro. Stanco, deluso e affamato, si siede su una roccia per mangiare il panino prima di tornare a casa, al momento di rialzarsi cerca con la mano il bastone che ha appoggiato per terra accanto a sé e viene colto da un dolore acuto, per mangiare si è tolto i guanti, distrattamente non se li è rimessi per prendere il bastone. Il dolore si irradia immediatamente in tutto il corpo, un grosso Heloderma suspectum ha tra le mascelle metà del suo polso.
Per sua fortuna i figli l’hanno quasi costretto a indossare un telefono salvavita, con localizzatore incorporato e pulsanti collegati all' ospedale e ai propri cellulari, non ne voleva sapere, ma ultimamente era necessario premunirsi contro la perdita di conoscenza, in caso di coma diabetico improvviso. Spingere il pulsante dell’ospedale fu l’ultimo gesto prima di crollare svenuto per lo spavento e il dolore.
Si risvegliò dopo tre giorni in terapia intensiva, anche se aveva camminato a lungo fuori dei sentieri si era aggirato senza accorgersene in un’area prossima all’ingresso, i soccorsi dall’ospedale erano giunti in pochi minuti. Al momento della dimissione il medico del reparto, che nei giorni di degenza l’aveva sottoposto ai controlli periodici, gli disse che inspiegabilmente risultava guarito completamente dal diabete. Non riuscivano a capacitarsene, ma gli consigliavano di controllare con regolarità la glicemia, per vedere se fosse uno stato occasionale o permanente.
Allora ricordò improvvisamente che nei racconti del nonno, accanto alle storie spaventose dei Mostri di Gila assassini, ce ne erano altri che invece narravano dei loro poteri curativi, poteri sciamanici, che a volte esercitavano misteriosamente.
Pino e Gigi
Difficile non notarli, più piccoli della media, camminano in fila indiana sul marciapiede, Gigi davanti e Pino dietro, ciascuno attaccato a un lungo guinzaglio alla cui estremità trotta un cagnolino. Appena dopo averli incontrati non si è in grado di dire a che razza appartengano i cani né quale sia il colore dei capelli dei due. D’inverno appaiono intabarrati in due giacconi, Pino scuro, Gigi a scacchi rossi e neri, riferimento alla squadra di calcio preferita; d’estate in maglietta bianca. Vivono insieme in un appartamento vicino alla pizzeria nella quale lavora Gigi come cuoco; l’ha comprato con un mutuo ventennale Pino, non appena assunto definitivamente nell’officina. Da solo a Milano avrebbe potuto trovare anche in affitto, perché anni fa in quella zona erano possibili ancora affitti convenienti, ma fu più forte in lui la tradizione contadina di comprarsi casa appena possibile, per avere almeno un tetto sopra la testa.
Pino è un meccanico, il più burbero dei due all’apparenza, di qualche anno più giovane di Gigi sembra in realtà più vecchio, stremato dai fumi e dai gas di scarico respirati da auto e furgoni in riparazione, ha continuato a lavorare fino a quando gli è stato possibile per la salute. È figlio di artigiani-contadini, il padre ebanista aveva un laboratorio molto attivo a Verrucchio, mentre la madre si occupava del podere e della vendita dei prodotti. Discrete le condizioni economiche, il padre si era circondato di quattro aiutanti, in attesa che almeno uno dei tre figli terminate le scuole decidesse di lavorare con lui, quello più probabile sembrava Pino, attento, preciso, fin da piccolo aveva girellato nel laboratorio, rivolgendo mille domande. Solo a otto anni aveva potuto maneggiare qualche strumento da falegname, fino ad allora proibito per motivi di sicurezza, il padre gli aveva trovato una vecchia pialla a mano, che costituì motivo di orgoglio per due anni; a dieci poteva usare anche scalpello e punteruolo, il padre gli aveva costruito un banchetto in un angolo del laboratorio sul quale lavorava piccoli pezzi di legno avanzati. I fratelli non condividevano il suo entusiasmo, la sorella poi era indirizzata agli studi classici e evitava di frequentare il laboratorio, disturbata dal rumore e dall’odore di colle e vernici. Dopo la maturità tecnico-industriale premiata con due mesi di InterRail con due compagni di classe, si era presentato in laboratorio pieno di buone intenzioni e di progetti. L'esperienza degli anni trascorsi in laboratorio a osservare i lavori, la buona riuscita a scuola, la baldanza dei suoi venti anni lo portarono non solo a credere di non aver bisogno di guida, ma anche a tentare di convincere il padre a introdurre processi innovativi nella lavorazione. Furono alcuni anni di continui litigi, recriminazioni da parte di Pino verso la resistenza del padre a accogliere le sue proposte, sfuriate del padre verso la sua ”presunzione”, vissuta ben presto come mancanza di rispetto e messa in discussione della propria autorevolezza, il clima divenne triste in casa e al lavoro. Fratelli e sorella evitavano il più possibile di stare in casa, la madre, sempre in ansia nel timore di una degenerazione delle liti, si ritrovò perfino a rammaricarsi del fatto che una spondilolistesi diagnosticata alla visita militare gli avesse procurato un congedo permanente, impedendogli di allontanarsi da casa per un po’. Una mattina Pino decise di partire e andò dove gli sembrava più probabile trovare lavoro, a Milano. I rapporti con i genitori ripresero solo qualche anno dopo, furono rari e formali, si svolsero prevalentemente attraverso brevi lettere, scambiate soprattutto con la madre, e per telefono.
Gigi appare sempre allegro, cuoco della storica pizzeria Fiorentina, è solito sbucare dalla cucina per dare uno sguardo rapido ai clienti e alle clienti seduti/e ai tavoli, in cerca di qualcuno con cui scambiare qualche battuta, il più delle volte sono incomprensibili le sue parole, basta la mimica facciale, e lui si accontenta di ricevere cenni di assenso e sorrisi compiacenti. Le pizze le cuoce davvero bene. Gigi è immigrato da bambino da un paese del Veneto, dopo le elementari aveva superato con qualche difficoltà le medie, è dislessico, i genitori non avevano provveduto a fargli frequentare corsi di logopedia per motivi economici, alle preoccupazioni espresse loro dalle insegnanti rispondevano che era una caratteristica familiare, il nonno e lo zio avevano problemi simili, ma questo non aveva impedito loro di essere abili venditori e di avere messo le basi di una fortunata attività al paese. Il dissesto finanziario che aveva ridotto sul lastrico la famiglia e determinato l’emigrazione a Milano in cerca di lavoro era dovuto ad altre cause che non alla dislessia. Gigi era stato bravo nel gioco del calcio, da ragazzo aveva dedicato ogni momento libero dalla scuola all’allenamento in una squadra di periferia, era stato considerato in famiglia una futura promessa, infatti dopo un provino davanti a osservatori della squadra cittadina era stato ammesso alla scuola di calcio. Purtroppo i dirigenti erano fissati con l’istruzione e pretendevano la frequentazione di un istituto superiore da parte degli aquilotti, chissà perché poi. Gigi non ne voleva sapere di continuare gli studi, non ce la faceva proprio, era diventato scontroso e irascibile fino a quando era stato congedato. Tutta colpa di questa mania per la cultura. Qualcuno conosciuto durante l’esperienza calcistica gli aveva procurato un posto come garzone in pizzeria, trasformatosi in seguito in posto di aiuto cuoco e infine cuoco titolare. Era stata una fortuna, che aveva compensato in parte la delusione dei genitori per l’esclusione dalla carriera sportiva, il salario mensile pur modesto, che Gigi versava completamente in casa, aveva contribuito a mantenere in equilibrio le sorti finanziarie della famiglia.
Gigi e Pino si erano conosciuti al parco, nell’area cani, seduti vicini su una panchina avevano iniziato a scambiarsi commenti generici sui loro cani, sul tempo, per passare gradualmente a argomenti più personali, quali il lavoro e la salute. Gigi ciarliero, Pino silenzioso, ascoltatore attento. In un momento di tristezza, insolito per lui, Gigi aveva informato Pino che stava per lasciare l’abitazione nella quale era rimasto dopo la morte dei genitori, messa in vendita dagli eredi della padrona di casa, e che si orientava a cercar casa verso comuni della cintura di Milano. Gli avevano parlato di buone occasioni a Lacchiarella, in fondo solo a sedici chilometri da Milano e ben collegata da un autobus, solo trenta-quaranta minuti di viaggio da casa al lavoro. Certo molto sarebbe dipeso dal traffico, dalla nebbia. Pino gli offre ospitalità, l’appartamento ha due camere da letto e ha perfino un terrazzino interno sul cortile, ornato da piante in vaso, con cuccia per il cane. Vive lì solo, non riceve amici o parenti, Gigi può restare in attesa di trovare una sistemazione che gli piace.
Passano anni di amicizia e comunanza di vita, le cucce diventano due, si incontrano la sera a cena, sono contenti di farsi compagnia, entrambi abituati a vivere da soli e a badare a se stessi e alle proprie cose gestiscono l’appartamento in buona armonia. Gigi parla sempre molto, finché non si accomoda sul divano in sala a guardare la televisione, preferibilmente partite di calcio, che ormai tra nazionali e internazionali sono quasi quotidiane, qualche film e qualche talk show. Pino ama invece leggere, ha la casa piena di libri, sistemati su scaffali in corridoio e nella sua camera, racconti e descrizioni di viaggi, qualche romanzo dell’Ottocento, di cui gli parlava la mamma, biografie di personaggi storici e racconti di guerre e battaglie. Dopo cena si chiude in camera, dove ha anche sistemato una poltrona, quando ha offerto ospitalità a Gigi, non gli interessano i programmi televisivi. Invecchiando apprezzano sempre più il sostegno e l’aiuto reciproco.
Gigi accompagna Pino in ospedale, lo assiste quando deve sottoporsi a una rischiosa operazione, la sera prima dell’intervento le infermiere gli permettono di restare più a lungo del solito, anche durante la cena dei malati. Pino gli consegna una lettera da spedire alla sorella nel caso l’operazione non vada a buon fine, in quell’occasione si lascia andare a confidenze insolite e non dissimula più il sentimento di amarezza, venato di rancore che lo accompagna da una vita. Anni dopo il suo allontanamento da casa aveva riconsiderato la questione, gli era sorto il dubbio di essere stato troppo insofferente, troppo orgoglioso, e di avere ferito i suoi genitori, soprattutto il padre, che non aveva mai nascosto la speranza di vederlo un giorno prendere il suo posto. Si era deciso a spedirgli una lettera, diretta solo a lui, chiedendogli di non accennare ancora la cosa alla madre o ai fratelli, faceva ammenda della propria impulsività, chiedendogli scusa per certi comportamenti che ora riteneva irriguardosi e immotivati, gli chiedeva se fosse possibile incontrarsi da soli e parlare. Non solo non aveva mai ricevuto risposta, ma al suo ritorno, in occasione della morte della madre avvenuta poco tempo dopo l’invio della lettera, il padre in un momento in cui erano soli a si informò del suo lavoro a Milano, della sua vita e si offrì di aiutarlo economicamente, nel caso avesse avuto bisogno. Nessun accenno alla lettera. Pino troncò il discorso, e se ne andò con il cuore indurito dalla constatazione che anni prima aveva visto giusto, il padre gli era stato in qualche modo ostile, e aveva accettato di buon grado il suo allontanamento. Gino lo guarda un po’ stupito e gli chiede perché mai non ne abbia parlato col padre in occasione dell'incontro, invece di arrovellarsi su che cosa il padre abbia pensato e provato; quanti inutili equivoci si eviterebbero chiedendo direttamente alle persone senza supposizioni arbitrarie. Non può essere neanche sicuro che la lettera sia giunta a destinazione, ogni tanto alla televisione ci sono servizi che parlano di sacchi di posta abbandonati da qualche parte, di lettere o cartoline arrivate quarant’anni dopo la spedizione. Può anche darsi che il padre dopo averla letta abbia pensato di rispondere, ma poi è intervenuto qualcosa che l'ha distratto, la morte della moglie ad esempio e se ne è dimenticato.
L’infermiera congeda Gino, dandogli appuntamento al primo pomeriggio del giorno seguente. Le osservazioni di Gino hanno rotto la scorza dura che aveva imprigionato il cuore di Pino, facendogli intravedere la possibilità di un disguido, di una imprevedibile mancanza di comunicazione tra lui e il padre. Quando l’infermiera di notte passa verso le dieci a vedere se dorme o se ha bisogno di un sedativo, risponde di no, che è tranquillo, che pensa di addormentarsi a breve, sperando che l’indomani vada tutto bene.
Wilmersdorfer Strasse
Da Wilmersdorfer Strasse a Alexanderplatz il viaggio in metropolitana è sempre un’avventura, quando è brutto tempo la U2 la porta alla stazione di Bismarkstrasse, a prendere la U7 per Alexanderplatz, se è bello le piace percorrere a piedi il tratto di strada tra le due fermate. Da quando abita in questa strada non perde l’occasione di attraversarla in lungo e in largo, affascinata dall’atmosfera che vi regna, dai negozi, soprattutto dal supermercato turco, ricco di verdure colorate e dalle accoglienti panchine.
La prima cosa che aveva notato appena arrivata a Berlino era che le sopraelevate, le S-bahn, spesso vanno sottoterra, mentre le metropolitane, le U-bahn, spesso corrono su binari sopraelevati, il che all’inizio le provocava qualche smarrimento, perché all’improvviso non ricordava più se stesse viaggiando su una U-bahn o su una S-bahn . Altro momento di spaesamento era stato provocato dalla numerazione dei portoni, i numeri successivi su un solo lato, invece che suddivisi sui due lati delle strade, le avevano causato andirivieni, ma poi ci si era abituata.
In un primo momento non pensava di stabilirsi a Charlottenburg, per il periodo della sua ricerca, luogo troppo legato all’immagine opulenta e borghese ai tempi del Muro; avrebbe preferito un quartiere più popolare, le sarebbe piaciuto vivere a Kreuzberg, ma si era presentata l’occasione di amici che si trasferivano in Brasile per un anno, mettendole a disposizione il proprio appartamento per un affitto veramente conveniente. Puoi andare nel tuo amato Mitte con la metropolitana in breve tempo, le avevano detto. Le manca po’ la luce, per il resto trova il clima abbastanza piacevole. A volte sente improvvisamente odore di mare, non sa se è nell’aria o nella sua mente. L’efficienza tedesca le è apparsa subito un mito, metà delle scale mobili nella sua zona funziona un giorno sì e uno no, l’acqua però è buona, non sa di cloro o disinfettante, esce dai rubinetti in gran quantità e con forte pressione. Ha scoperto che neppure al grande ufficio Turistico della stazione principale, la Hauptbahnhof, gli impiegati e le impiegate conoscono l’italiano, e neppure il francese, però lo spagnolo sì, oltre all’inglese che sembra la loro madre-lingua. Nei negozi invece è diverso, si trovano persone che spesso parlano italiano.
Dalle brevi visite precedenti la città le era rimasta nel cuore e ora che ha anche la possibilità di viverla, almeno per un po’ di tempo, dall'interno, abitando per un periodo in una casa invece che in albergo, misurandosi con una quotidianità che cancella la dimensione di turista, si sente appagata. Appena arrivata aveva comprato il “Mitte”, il giornale berlinese redatto da italiani per italiani, un divertente articolo di un giornalista che vive qui da diciotto anni parlava della scortesia, dell’individualismo, della scontrosità dei berlinesi, poi però alla fine, per fortuna, stemperava le accuse con un generico “non tutti”. In realtà lei ha trovato molto più numerose le persone gentili, che addirittura la interpellavano per strada, mentre consultava una piantina e le chiedevano se avesse bisogno di aiuto, qualcuno l’ha anche accompagnata per un tratto di strada.
E’ stata attratta da subito dai manifesti pubblicitari, presenti soprattutto nelle stazioni della metropolitana, a prima vista non le sembrava imperasse il sessismo che abbonda in Italia, se comparivano donne erano persone normalmente vestite, che pubblicizzavano qualcosa; eppure uno stereotipo sessuale faceva comunque capolino, anche in una pubblicità con un nobile intento pedagogico: si invitava al sesso sicuro sia i ragazzi che le ragazze e si consigliava di usare il preservativo, il messaggio era affidato a due manifesti simmetrici, nel primo si vedeva un giovane uomo, ancora quasi adolescente che dichiarava di volerlo fare “selvaggio”, nell’altro una bella ragazza, anche lei quasi adolescente dichiarava di volerlo fare “dolce”. Potenza dell’interiorizzazione delle immagini di genere.
Dopo un mese si rende conto che quando si informa su quel che accade in Italia le notizie hanno un impatto minore del solito su di lei, nel senso che le provocano reazioni emotive quasi vicino allo zero, come se si trattasse di un altro mondo. Come è possibile? Così labile è il senso di appartenenza? Sospetta che siamo molto più liberi interiormente di quanto certe retoriche ci descrivono.
Proprio sull’amata U7 l’ha incontrato, un architetto polacco che si è trasferito a Berlino dove ha aperto uno studio con un collega tedesco. Il pretesto per fare amicizia sono stati il suo sguardo incantato sui balconi tutti colorati di un palazzo che le sfilava accanto e la sua esclamazione di meraviglia, sottovoce ma non tanto da non essere udita da Grzegorz che la osservava da qualche minuto, divertito nel vederla parlare tra sé e sé bisbigliando. L’elemento di maggiore creatività a Berlino, a volte trascurato dai turisti, è proprio l’architettura, le aveva detto Grzegorz, colori, forme, collocazioni e giustapposizioni degli edifici lasciano ammirati; l’ammirazione aumenta se teniamo in considerazione il paesaggio urbano nel suo complesso, ricco anche di fiumi, canali, laghetti, boschi e parchi. Superato il momento di imbarazzo aveva deciso di rispondere. Da quel momento la sua vita a Berlino è diventata una festa continua, i concerti gratuiti alla Philarmonie alle tredici il martedì, in una pausa delle attività e del lavoro quotidiano, pausa diventata subito sacra per entrambi, si sono arricchiti della possibilità di condividere e scambiarsi emozioni. Per il resto agli incontri sono destinate le sere, dopo il lavoro, e i sabati e le domeniche, trascorse a percorrere in lungo e in largo la città e i suoi dintorni. Dopo tanta singletudine il ritrovare una dimensione di consonanza di opinioni e sentimenti e di corrispondenza di interessi le procura uno stato di benessere che non pensava più di provare. L’ intimità, che in genere si raggiunge dopo una lunga e attenta frequentazione, si era stabilita subito, il che la stupisce e la incanta. A una certa età non si ha più davanti un tempo infinito e si bruciano le tappe. Perfino il lavoro se ne è avvantaggiato, procede nella ricerca spedito, perché i dubbi che si presentano si sciolgono più rapidamente di prima. A questi aspetti si aggiunge un’attrazione fisica e un’intesa sessuale che la fanno sentire più viva, quasi come quando era giovane, inoltre l’attenzione e la premura dalle quali si sente circondata le attenuano le ansie consuete, in aumento con l’avanzare dell’età.
E’ lusingata per il fatto che Grzegorz si apre completamente con lei, senza reticenze, i suoi racconti, soprattutto dell’infanzia, sono interessanti, anche se a tratti dolorosi, un’esperienza molto diversa dalla propria, che è trascorsa tranquilla e banale. All’inizio è mossa da un sentimento di empatia alternato a uno di tenerezza, ma a poco a poco le scatta la trappola, l’idea di proteggerlo dall’umor nero, cercando modi per compensarlo delle ferite che vede ancora aperte. Poi comincia a accorgersi che le esperienze vissute nell’infanzia da Grzegorz non sono state del tutto integrate e sistemate nella dimensione dei ricordi, ai quali ripensare con commozione, ma ogni tanto si attivano, facendolo piombare in un maelstrom che lo risucchia. Si rende conto che per aiutarlo veramente nei momenti in cui sprofonda nell’autocommiserazione dovrebbe essere in grado di ascoltarlo distaccata, senza lasciarsi coinvolgere nella temperie emotiva scatenatasi davanti ai suoi occhi e senza lasciarsi andare a un provvisorio senso di onnipotenza, destinato a lasciarla frustrata per l’insuccesso. Quando Grzegorz esce dalla dimensione vittimistica lo fa in base alla mobilitazione di risorse personali. Avverte il rischio di stress generato dalla combinazione dei comportamenti propri e di Grzegorz e decide, con uno scatto di autoconservazione, di prenderne le distanze, di rinunciare a quel rapporto così soddisfacente e appagante per tanti versi.
Fu difficile spiegarlo a Grzegorz senza ferirlo, accelerò il lavoro di ricerca, in modo da affrettare il suo rientro, negandosi alla possibilità di portare avanti la relazione a distanza. Questa volta scelse di essere una persona di scorza dura.
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