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Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Sabato 04 Gennaio 2020 12:57

di Paolo Rabissi

Burattino 'per bene' in carne e ossa anche Pinocchio è lavoratore autonomo di secondo Ottocento precario senza mutua. Una lettura fuori dagli schemi disneyani e del nostrano realismo accomodato.

Il film Pinocchio del regista Matteo Garrone è attualmente nelle sale. E’ un film glaciale. Il critico Mereghetti sul CorriereTV dice meglio ‘una fredda illustrazione’, meglio perché aggiunge illustrazione. Dicono Sabatini Colletti del termine nel loro dizionario:  Figura, disegno, fotografia che accompagna un testo a scopo esplicativo, documentario o ornamentale: i. in bianco e nero. Colori non mancano nel film, rimandano all’ocra delle terre toscane. E la fotografia accompagna magistralmente lo scopo esplicativo e documentario del libro di Collodi. Che resta però glaciale. Il Pinocchio che conosco è invece per me crudamente caldo. Mi sono interrogato sui motivi della scelta del regista. Ma ho lasciato perdere, mi sono invece piuttosto preoccupato del fatto che un Pinocchio così possa piacere ai bambini.

Il caldo crudo del libro di Collodi viene dalle avventure e dalla lingua, ricca di umori contadini e artigiani toscani. Sulle avventure non mi soffermo, sulla lingua aggiungo solo che Manzoni non l’avrebbe amata, scoppiettante di toscanismi com’è. Lui si sa con i dialetti non voleva averci a che fare. Collodi invece è spirito libero e scrive di seguito. Scrive libri per la scuola. Scrive per i ragazzi poveri com’era stato lui, ai quali qui un messaggio lo manda chiaro e forte: fate i matti finché potete ma fate presto, l’unico futuro che avete davanti è nella vostra capacità di trovarvi un lavoro. Perché nell’Italia degli anni ottanta (il libro esce tra il 1881 e il 1883) di lavoro se ne trova poco e semmai occorre inventarselo. Come oggi. Come ieri, ai tempi di Pinocchio, quando l’industria è ancora poca cosa e lo Stato non fa nulla.

Chi arriva – e chi ci arriva se lo dimentica – all’ultimo capitolo del Pinocchio il messaggio lo trova spiattellato. A romanzo di formazione concluso ci si ritrova nel lindore d’una casetta tenuta in bell’ordine da Pinocchio che, diventato ragazzo ‘per bene’, è lavoratore stagionale nei campi e contemporaneamente artigiano autonomo, specializzato in canestri di giunco e affini. Deluso dagli esiti dei primi vent’anni di unità italiana, Lorenzini, che fino al suo Pinocchio dell’81 aveva scritto libri per la scuola, sembra qui rinunciare alla fiducia nel nuovo Stato unitario capace di attivare e sollecitare iniziative culturali, moderne e con prospettive, ed una vita economica dinamica e attenta ai bisogni sociali. Sembra piuttosto, da liberale prima maniera, affidare solo al lavoro in sé e alla iniziativa personale la via di riscatto per i poveri. Per loro più che mai torna a contare soprattutto la solidarietà individuale e quella familiare. In uno Stato incapace di offrire giustizia, istruzione, lavoro e provvidenze sociali Geppetto finisce col dover contare per la sua vecchiaia precaria solo sulla buona disposizione di quell’infaticabile e devotissimo lavoratore che è diventato Pinocchio.

Ho pubblicato a suo tempo su La balena bianca, una rivista di idee e di cultura diretta da Attilio Mangano, una personale lettura del libro. La ripropongo qui. Il caldo crudo della favola ho provato a conservarlo con l’uso di un linguaggio toscaneggiante, col quale ho conservato familiarità. Col rischio a dire il vero di cadere in un tiepido dialetto, ma Lorenzini perdonerebbe, amava i dialetti e del resto Pinocchio e Lucignolo parlano tra loro in dialetto asinino!

***

A proposito di Pinocchio, di Geppetto.

Da qualche parte della Toscana, è verosimile tra Collodi e Firenze, negli anni ottanta del XIX secolo, una ventina d’anni circa dall’unità d’Italia, dopo tante peripezie, ebbe finalmente a vivere una famigliola un po’ fuori del comune, composta da un vecchio arzillo ‘tutto bianco come se fosse di neve’ e un ragazzetto di dieci, undici anni dai capelli castani e dagli occhi celesti. Abitarono una casetta modestissima ma dignitosa, composta di sole due stanze, piccole ma funzionali alla bisogna: la prima anzi era proprio ‘una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante’[1]. Nella seconda il bianco Geppetto, avendolo ripreso da poco, esercitò, si pensa per lunghi anni ancora, il suo mestiere d’intagliatore di legno, attività che in quella zona in particolare aveva un’antica tradizione ma che aveva conosciuto stagioni migliori.

Quegli anni ottanta erano tempi grami. Geppetto a dire il vero s’era dato da fare, com’era suo solito, e si era specializzato in cornici, che lui faceva ‘ricche di fogliame, di fiori e di testine di diversi animali’[2], ma di lavoro, non che abbondare, non ce n’era punto. Fortuna che lui era uno che conservava saldi i suoi principi e l’ottimistica fiducia che si portava dietro dalla giovinezza: alla fine in tutto il paese aumenterebbe la ricchezza della gente (non s’era fatta per quello l’unità d’Italia?) e verrebbero in tanti a chiedergli i suoi lavoretti ben fatti; a patto, naturale, che il governo non ci mettesse grugno con carichi e balzelli, gravezze e tassagioni. Spirito d’iniziativa e intraprendenza non gli mancavano.  E aveva ben ragione a sentirsene fiero: chi altri d’intorno poteva vantarsi d’essersi procurato tutto da solo un figliolo, e non in legno, ma proprio bell’e rifinito in carne e ossa? Solo all’ultimo, per via di quella incarnazione finale da burattino a bambino, Geppetto sapeva che ci s’era messa di mezzo la signora dai capelli turchini, con la quale lui in ogni modo s’era sempre guardato bene dall’averci a che fare.

Il suo Pinocchio se l’era scolpito lui, in un pezzo di legno a dire il vero un po’ troppo ballerino, tant’è vero che aveva dovuto subito cominciare a farci i conti. Perché, animato dall’idea di fabbricarsi al più presto un burattino che lavorasse per lui e lo mantenesse nella vecchiaia (ma non un burattino qualsiasi ma uno ‘meraviglioso che sappia ballare tirare di scherma e fare i salti mortali’[3]) e non avendo del resto dimestichezza alcuna con gli accudimenti da fare ai neonati, aveva voluto farselo già grandicello; sicché non s’avvide dei patimenti che stava per procurarsi a voler far saltare a piè pari, al suo figliolo, anni di paziente educazione e d’addestramento all’obbedienza (cose in ogni modo da donne, con le quali, occorre ridirlo, Geppetto, di natura bizzosissima com’era, non aveva mai legato). Insomma non ebbe neanche finito di intagliargli i piedi (e a dirla tutta gli orecchi manco gli vennero in mente) che quel tipaccio gli aveva fatto subito capire di che pasta era: dispettoso, senza rispetto, indiavolato e soprattutto voglia di lavorare punta e di andare a scuola manco a parlarne.

Ma ora, alla fine di avventure e disavventure mirabolanti, Geppetto poteva essere ben contento: il suo Pinocchio, dopo avergliene fatte passare tante, aveva messo la testa a posto. Difatti lavorava, lavorava tanto da stentare a crederci. E un mattino s’era ridestato in carne e ossa perché, ripeteva Geppetto, se te non ti fai vedere dal buon Dio scansafatiche e bighellone, come troppi ce n’era, se nella vita ti ci impegni, olio di gomito e testa alta, prima o poi un che di bello e di buono si sortisce sempre.

Ma, sulle prime, era stata davvero dura. Pinocchio s’era subito mostrato uno che quello che gli piaceva prendeva e faceva, di obbedienza neanche a parlarne. A mandarlo a scuola Geppetto ci provò, perché non gli pareva vero che quell’impresa geniale in carta e legno avesse a riuscirgli così male: in fondo pensava che sotto quel guscio legnoso durissimo ci fosse un’animella buona, per questo l’aveva chiamato Pinocchio, come dalle sue parti i pinoli. S’era perciò venduta la casacca, piena di ‘toppe e rimendi’, per comprare l’abbecedario ma quello, acciderba a lui, l’aveva subito barattata per imbrancarsi coi suoi compagni burattini a teatro con quel famoso Mangiafuoco, che tutto sommato era un galantuomo. E poi era sparito. Geppetto, un po’ imbecerito, s’era messo a cercarlo ma cominciò presto a disperare, tanto che a un certo punto si ficcò in testa di andarlo a cercare nel Nuovo Mondo. Con lo spiritaccio che si ritrovava Pinocchio ne era capace. Geppetto ne sapeva tanti di giovinetti che s’imbarcavano a Livorno in cerca di fortuna oltre oceano. Scappavano dalla miseria di casa loro e del resto anche lui in capo quel pensiero l’aveva avuto. Erano tempi duri, in altri tempi gli bastava battere la contrada per trovare commissioni. Ora non più. Ai tempi del Granduca il suo lavoro era ricercato e ben pagato, di artigiani rifiniti come lui ce n’era pochi e non si faceva a tempo a soddisfare le richieste. Ora, nel regno nuovo, scappavano tutti, soprattutto dalla campagna. Quando passavano dal paese il rumore degli zoccoli sul selciato metteva paura. La campagna non rendeva più. Si diceva che dal Nuovo Mondo, a bordo di giganteschi piroscafi, arrivavano non so quanti grani e frumenti, perché laggiù c’era terra in abbondanza per tutti e che rendeva di molto con certi macchinari nuovi, e questi grani e frumenti arrivati quassù avevano abbassati i prezzi dei nostri mandando in rovina prima i più poveri e poi tanti altri cristiani. E molti dicevano che questo era il risultato a voler sempre dipendere solo dalla campagna e che l’unico rimedio erano solo le fabbriche.

Ma Geppetto delle fabbriche non aveva una bella opinione. Ce n’era di quelle che gli operai ci lavoravano per pochi soldi anche sedici ore al giorno e non era quella una bella umanità a vedersi. Geppetto non avrebbe mai rinunciato al suo mestiere che gli permetteva almeno di morire di fame come voleva lui. A dirla in soldoni, fino al momento in cui s’era messo in testa di intagliare quel burattino, aveva vissuto nella miseria più nera. La sua unica stanzetta, che prendeva luce dal sottoscala, aveva un tavolo sgangherato e un letto poco buono dove erano più le volte che ci si coricava per il freddo e la fame che per il sonno. Fortuna che il suo bello spirito allegro e rumoroso non lo abbandonava mai: per sua consolazione aveva dipinto sulla parete di fondo un caminetto col fuoco acceso e sopra ‘una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo che pareva fumo davvero[4]. Fiducia e iniziativa non gli mancavano, tant’è vero che l’idea del burattino gli era venuta proprio per buscarsi un tozzo di pane e un bicchiere di vino e ora non c’era altro da fare che andare a cercarlo, ovunque quel diavolaccio si fosse cacciato, anche in capo al Nuovo Mondo.

Per questo aveva imbastito lì per lì una barchetta. Era un guscio di noce, tant’è vero che naufragò in quattro e quattr’otto, quel giorno il mare infuriava e un cavallone più grosso degli altri sommerse lui e il suo guscio. E pensare che prima di quella terribile ultima ondata gli era parso di vedere sulla spiaggia Pinocchio che gli faceva gesti ‘col moccichino da naso e perfino col berretto’, ma ormai era troppo tardi e i pescatori che erano raccolti sulla spiaggia ‘brontolando sottovoce una preghiera’ tornarono alle loro case. Gli avvenne così di essere inghiottito da quell’orribile pescecane. Ci sarebbe stato da disperarsi, ma Geppetto non si perse d’animo e la fortuna lo aiutò, perché quel pescecane, così affamato, quello stesso giorno inghiottì anche un intero bastimento carico d’ogni ben di Dio. E però a ripensarci non poteva nascondersi che quella lunga notte passata nel ventre di quell’animale era stata deprimente. Ne era un po’ invecchiato. Non aveva fatto altro che ripensare alla sua vita, alle grandi speranze giovanili, alle promesse. Aveva ripensato l’eccitazione del ’59, quando il granduca se l’era data a gambe e in paese era comparso il tricolore. Tutti si aspettavano grandi cose da quegli avvenimenti. Ma di quella tanto sbandierata felicità per tutti che ne era stato? Promesse. E balzelli e scippi regali anziché granducali. La miseria era aumentata e tra la gente avevano preso a circolare certe idee sociali che non gli garbavano per niente, gli parevano un po’ troppo sovversive. Gli ordinamenti della giustizia andavano rispettati. Anche se, bisognava dirlo, non è che la giustizia del regno nuovo desse tanto affidamento. La prima volta che ci aveva avuto a che fare s’era buscato a torto una notte di prigione. Il fatto era stato che, mentre inseguiva Pinocchio per la strada, la gente aveva parteggiato per quella birba e il carabiniere alla fine anche, difatti aveva portato dentro lui per maltrattamenti ed era stato rilasciato solo la mattina seguente. A Pinocchio stesso poi gliene era capitata una ancora più inverosimile. Era successo quando s’era rivolto al giudice che ‘era uno scimmione della razza dei gorilla, un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e soprattutto per i suoi occhiali d’oro senza vetri’[5], gli aveva raccontato per filo e per segno ‘l’iniqua frode di cui era stato vittima’ da parte del gatto e della volpe, che gli avevano promesso la moltiplicazione dei famosi zecchini d’oro nel campo dei miracoli. Il giudice aveva ascoltato ‘con molta benignità’, s’era intenerito e commosso ma al dunque chiamò due can mastini vestiti da ‘giandarmi’ che, tappata la bocca a Pinocchio, lo misero diritto in gattabuia.

E l’istruzione? Ne avevano fatto un gran parlare i nuovi ministri del regno. Ma né della scuola né dei libri Geppetto aveva ormai grande opinione. Certo non apprezzava quello che Pinocchio aveva combinato insieme ai compagni di scuola, coi quali aveva marinato e coi quali finì col leticare. In quell’occasione sillabari, grammatiche e libri di lettura scritti appositamente per la scuola come Giannettino e Minuzzolo, del famoso Collodi, finirono in bocca ai pesci (che, a dire il vero anche loro li risputarono con fare sdegnoso). Con quello che costavano! Troppo per la povera gente. Ne sapeva qualcosa lui che per comprare l’abbecedario aveva rischiato la polmonite.

Nelle lunghe ore di riflessione nella pancia del pescecane Geppetto aveva finito col convincersi che poi tutto questo bisogno d’istruzione per la povera gente non c’era. E del resto come si spiegava che i maestri erano pagati così male che se non li si confortava con qualche regalino c’era di che vederseli svenire per la fame in classe? La gente come lui e Pinocchio aveva bisogno solo di lavorare, perché solo a quello essa era destinata da sempre. L’importante era cercarsi un buon mestiere per le mani e avere quel tanto di conoscenza nei tre soliti vecchi fondamenti: scrivere, leggere e far di conto, quanto bastasse cioè per badare ai propri interessi che nessuno potesse minchionarti. E per il resto alla provvidenza di Dio.

Ma quello che amareggiava di più il brav’uomo nella pancia del pescecane, era proprio il timore di non essere stato per tempo un buon padre per Pinocchio, di non essere stato capace di trasmettergli subito l’unico insegnamento che lui, al di là di quello che il re continuava a dire e cioè di educare i figli all’amore per la patria, per Dio e per la famiglia, riteneva davvero importante, e cioè l’amore per il lavoro. Perché il resto era tutto da discutere. Dio patria famiglia tutte belle cose, ma per i poveri l’unica cosa che contasse sul serio era la voglia di lavorare, senza fare tanto gli schizzinosi e contando solo sulle proprie forze, olio di gomito e testa alta.

Per il resto, a viverci dentro il mondo, c’era solo da pararsi alla bell’e meglio da ingiustizie e crudeltà. Bastava vedere come il mondo gli aveva trattato il suo Pinocchio quando lui non gli era vicino. Certamente aveva avuto torto Pinocchio a stecchire e appiccicare alla porta il grillo parlante col martello di legno. E però anche quel benedetto animale con quella solfa minacciosa del vagabondo che finisce per forza o ‘allo spedale o in prigione’! E quella notte in cui, essendo lui in prigione, Pinocchio aveva dovuto cavarsela da solo? Era finito, in quella notte di vento freddo e strapazzone, a chiedere del pane a un vecchino che con molto garbo gli rovesciò sul capo una catinellata d’acqua diaccia.

Il comportamento della fatina dai capelli turchini poi, dava da discutere anche quello. Che bisogno c’era a quel poveretto che aveva bisogno d’un riparo, di comparirgli da una finestra ‘col viso bianco come un’immagine di cera’, con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto? Un’apparizione da pelle d’oca che avrebbe messo il fuggi-fuggi nelle gambe di chiunque. E tutta quella messa in scena con tanto di bara per fargli prendere la medicina, col coro dei circostanti a base di ‘quel burattino è un figliolo disubbidiente che farà morire di crepacuore il suo povero babbo’[6]?

Ma, fatina a parte, che dire poi quando, per ‘poche ciocche d’uva moscatella’, non solo era finito con un piede nella tagliola, ma per avere pietà dal contadino si era dovuto adattare a fare il cane da guardia al posto di Melampo, con un grosso collare al collo e una catena legata al muro ‘accovacciato su l’aia più morto che vivo a motivo del freddo della fame e della paura’[7]?

A dire il vero una sola volta la fatina s’era comportata da vera signora: quando Pinocchio era capitato all’isola delle api industriose lei era riuscita per la prima volta a farlo lavorare. Questa era stata proprio una bella riuscita, Geppetto ne era riconoscente alla fatina. In quell’occasione Pinocchio dimostrò di aver digerito anche un altro piccolo ma importante insegnamento: non abbassarsi a chiedere l’elemosina, perché tranne chi è condannato a non potersi guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani, come i vecchi e i malati, ha l’obbligo di lavorare.[8]

Così la pensava Geppetto e così ormai anche Pinocchio. Il quale, al termine della storia, era proprio cambiato. Quando se n’erano usciti al vecchio mondo dal ventre del pescecane, Geppetto s’era ammalato per i disagi e le fatiche patite e s’era potuto riprendere solo grazie alle cure amorose e continue di Pinocchio. E, a guarigione avvenuta, Geppetto aveva potuto rendersi conto di quanta devozione e spirito di sacrificio Pinocchio fosse ormai capace. C’era davvero di che stupirsi! Né amicizie né spassi, niente. Bastava fare il calcolo di quante erano le ore giornaliere di lavoro del suo bravo figliolo.

Anzitutto lavorare a girare il bindolo buona parte della giornata e, quando aveva tirato su i cento secchi d’acqua per l’ortolano, riceveva come ricompensa un bicchiere di latte per la ‘salute cagionosa’ del suo babbo; veniva da chiedersi come facesse a rinnovare le forze per durare così tanta fatica! Nelle ore restanti della giornata poi, Pinocchio aveva imparato a fare canestri e panieri di giunco e insomma dava l’aria di essersi trovato un mestiere. Difatti ‘coi quattrini che ne ricavava provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere’[9] e s’era anche procurato un carrettino da condurci a spasso il babbo ‘alle belle giornate e fargli prendere una boccata d’aria’[10].

Ma non bastava. A sera si esercitava a leggere e scrivere. Per la lettura s’era procurato un grosso libro al quale mancavano il frontespizio e l’indice e per esercitarsi nella scrittura si serviva di un fuscello che intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliegie.

Poi un giorno comparve la solita lumaca a fare la sua drammatica ambasciata: la povera fata giaceva ‘in un fondo di letto allo spedale’. Senza pensarci due volte Pinocchio dette alla lumaca i quaranta soldi che aveva in tasca e coi quali al mercato voleva comprarsi un vestito nuovo, e li accompagnò con la generosa promessa di lavorare da quel giorno in poi ‘cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma’[11]. A Geppetto a dire il vero quella era parsa una reazione un po’ sproporzionata, ma ancora una volta non potè fare a meno di considerare quanto lavoratore e devoto fosse diventato il suo Pinocchio.

Ora, dal suo lindo e decoroso quartierino nel quale quella coppia un po’ fuori del comune s’era sistemata, il vecchio liberale, poteva guardare con serenità alla vecchiaia.

Su quanto tempo Pinocchio, ragazzo ormai per bene ma niente affatto grullo, avrebbe durato con quei ritmi da lavoratore autonomo precario senza mutua, su questo la nostra storia non dice nulla.




[1] C. Collodi, Pinocchio, Feltrinelli, Milano pag. 279.

[2] ibidem, pag. 279.

[3] ibidem, pag. 145.

[4] ibidem, pag. 148.

[5] ibidem, pag. 198.

[6] ibidem, pag. 188.

[7] ibidem, pag. 204.

[8] Anche questo dimostra la scarsa fiducia del Lorenzini nelle istituzioni, famiglia compresa. A educare davvero Pinocchio non sono né la scuola né la famiglia né la Chiesa, ma la strada con le sue esperienze di vita.

[9] ibidem, pag. 277.

[10] ibidem, pag. 277.

[11] ibidem, pag. 278.

 

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