di Gianni Trimarchi
Il contesto del neorealismo
Nel dopoguerra italiano si erano riaperte le sale da ballo e i cinema, con grande partecipazione delle masse popolari che, dopo anni di austerità, ritrovavano il piacere di divertirsi. Se nelle sale imperavano le nuove danze americane, gli spettacoli cinematografici erano costituiti da pellicole americane, che importavano un nuovo modello di vita. I risultati furono imponenti: a Napoli 6.000 persone parteciparono alla prima de Il grande dittatore di Chaplin. A Firenze quasi 60.000 persone si recarono a vedere lo stesso film. Mentre prima del confitto si vendevano 138 milioni di biglietti all’anno, nel 1946, la vendita salì a 417 milioni.[1]
Si trattava però di un cinema di evasione, di origine hollywoodiana, destinato a mettere in atto l’adorazione dei divi e insieme del consumismo, facilmente riportabili all’American Way of Life. Questa trovava consensi nelle masse, che riconoscevano nel modello americano qualcosa di più evoluto rispetto al modo di vivere diffuso in Italia. Anche la classe dirigente era peraltro incline ad approvare questo modello, se non altro per i suoi contenuti a carattere implicitamente maccartista, che risultavano utili nella gestione del potere. Vedremo tuttavia che anche la sinistra storica ebbe curiose ambivalenze e sordità nei confronti della politica mediatica di quegli anni.
Una nuova definizione del cinema
In un contesto di grande fruizione cinematografica, c’era in Italia chi si poneva il problema di produrre, anche se le condizioni di lavoro erano difficili. Cinecittà era diventata un rifugio per gli sfollati e comunque i teatri di posa erano poco agibili, a causa della scarsità di energia elettrica che caratterizzò il dopoguerra. Diventava quindi una necessità il fatto di girare i film per le strade. Alcuni intellettuali italiani sentivano tuttavia la necessità di avere una poetica che giustificasse questa scelta, riscattando la dimensione spettacolare da un giudizio totalmente svalutativo, assai diffuso nell’Italia degli anni cinquanta.
Questo giudizio partiva da una definizione della mente molto vicina a quella dell’intelletto matematico, ignara del fatto che già in Kant l’immaginazione “schematizza senza concetto”, in Freud si parla di dinamica della regressione e in Vygotskij di catarsi. Varie elaborazioni in senso contrario erano tuttavia già state fatte sia in Francia che in Russia. Già un’ironica frase, scritta da Ejzenstejn negli anni trenta, sembra fare il punto sulla questione.
“Il contatto con l’arte porta lo spettatore a un regresso culturale. Infatti il meccanismo dell’arte si definisce come mezzo per distogliere la gente dalla logica razionale […] Fu Vygotskij a dissuadermi dal proposito di abbandonare questa “vergognosa” attività.”[2]
Certo non stupisce il fatto che Vygotskij, fenomenologo e fondatore, insieme a Lurija, della società psicoanalitica moscovita, conoscesse gli aspetti positivi della regressione e vedesse proprio nell’arte una loro applicazione significativa. I neorealisti fecero tesoro di questa lezione: il problema che si poneva loro era infatti quello di creare un cinema capace di dare un contributo alla vita sociale del paese svolgendo un’azione critica e non di evasione. Alla base delle loro riflessioni si trovava un sostrato culturale molto ricco, riferibile al naturalismo e al realismo francese, al verismo di Verga e al realismo socialista, da cui emergono spunti significativi. Vanno qui ricordati anche il saggio di Benjamin sull’opera d’arte che ne definisce le nuove funzioni e infine il realismo di Bazin.
Già nel 1936 Benjamin aveva indicato che il problema in relazione a foto e cine, non consisteva nel chiedersi in che modo rientrassero nella definizione tradizionale di arte. Al contrario queste nuove prassi ci ponevano il problema di capire in che misura fosse cambiata la definizione stessa di arte che, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, aveva ormai nuove mete, “la cui valenza costruttiva consiste nell’essere una forza distruttiva e catartica, che liquida il valore tradizionale dell’eredità culturale. La nozione stessa di autore trova qui una nuova definizione[3]
“L’attualità cinematografica fornisce a ciascuno la possibilità di trasformarsi da passante in comparsa [...] Ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di venir filmato. […]
[In q ambito], L’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, di cui quella di cui siamo maggiormente consapevoli, quella artistica […] in futuro potrà venir riconosciuta come marginale.[4] L’arte è sfuggita al regno della bella apparenza, cioè a quel regno che per tanto tempo è stato considerato l’unico in cui essa potesse fiorire.”[5]
Abbiamo quindi una nuova funzione dell’arte, destinata ad avere un seguito, anche al di fuori dell’ambiente in cui è stata inizialmente pronunciata. André Bazin, uomo della Resistenza, di origine cattolica, e interessato alla cultura popolare, nel 1958 pubblicava ‘Che cos’ è il cinema’. In quest testo vengono enunciati degli assiomi del realismo cinematografico, che per alcuni aspetti non distano molto da quanto abbiamo già visto, anche se qui il discorso possiede nuove faccettature.
Se Zavattini parlava di “urgenza dell’umile racconto” e del “filmare il passo lento e stanco di un operaio che torna a casa”, con ancor maggiore chiarezza Bazin scriveva:
“Ladri di biciclette (1948) è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, finalmente, nell’illusione estetica perfetta della realtà, niente più cinema” [6]
Qui non si tratta di penetrare con la macrofotografia “in un universo fisico inesauribile” (Kracauer) e nemmeno dell’inserirsi in pieno nell’oggettività della vita socio-politica secondo il modello sovietico. Secondo Bazin il cinema, “prima ancora di rappresentare la realtà, partecipa ad essa, convive con essa, le si avvicina al punto di liberarne tutte le intime possibilità fino a mostrarne gli interni trasalimenti e a esibirne l’essenza”[7].
Qui varia la nozione stessa di arte: il suo oggetto non è divertire, ma porre dei problemi, senza voler concludere con un rassicurante lieto fine. Qui si ritiene tuttavia che la realtà non sia soltanto referenziale, ma possa mostrare aspetti non percepibili nella vita quotidiana, che tuttavia risultano rivelabili nel film. Il realismo quindi non è una piatta fotocopia della realtà, né un’arena giornalistica, ma è un modo per cercar di raggiungere il mondo della vita che si nasconde dietro alle apparenze, vivendo empaticamente nella vita dei personaggi.
Un esempio significativo è costituito da Umberto D. (De Sica 1952) In questo film i dati di fatto costituiscono lo sfondo reale, ma non sono l’oggetto principale del dramma. Con sentita commozione De Sica, con la collaborazione di Zavattini, racconta la storia di suo padre, funzionario statale in pensione, che non ha più il denaro sufficiente per vivere, dal momento che l’inflazione ha drasticamente ridotto il valore della sua pensione. Egli è soggetto a una serie di umiliazioni, particolarmente brucianti per lui, che era un dirigente di un ministero. Va osservato che l’interprete principale, Carlo Battisti, non è un attore; si tratta di un docente dell’università di Firenze che, in questo suo unico film, esprime le ansie connesse con il suo ruolo di alto funzionario in pensione. Qui viene messa in scena la “memoria emotiva”, teorizzata dal realismo di Stanislavskij e considerata in ambito neorealista ben più importante di quanto si può imparare in un’accademia di arte drammatica.
Proprio l’avvicinarsi a una storia ben definita permette all’autore di mettere in atto la “potenza del concreto”, descrivendo, come scrive Lukàcs, un particolare che, lungi dal risolversi in se stesso, “contiene l’universale”. È quell’universale in cui larga parte del pubblico può identificarsi, riconoscendosi in pieno nella concretezza delle traversie del personaggio, che rivelano in esplicito la drammaticità della vita quotidiana, troppo spesso celata.
Volendo fare un altro esempio potremmo ricordare L’oro di Napoli (De Sica 1954). Si tratta di una serie di episodi di vita napoletana fra cui potremmo ricordare quello del pazzariello. In un primo momento vediamo il nostro personaggio filmato mentre svolge il suo lavoro, in una sorta di documentario etnografico. L’atmosfera cambia completamente quando lo stesso compare a casa sua, nella sua dimensione quotidiana, funestata dall’invadenza di un mafioso la cui presenza indebita mette in crisi l’intera vita familiare. Qui compare il vero dramma, insito nella realtà delle cose.
Analogamente potremmo parlare de Il generale della Rovere (Rosselini 1959) che descrive il processo di elaborazione dell’identità da parte di un piccolo truffatore, invitato dai tedeschi a fare la spia. Egli si trova prima ad impersonare la parte di un generale badogliano, poi a identificarsi in questa finzione al punto di farsi fucilare pur di non perderla. La narrazione avviene con una profonda attenzione empatica per il personaggio e per la sua catarsi, descritto nella sua realtà, nella sua sofferenza e nei suoi “interni trasalimenti”, senza effetti scenici che risultano superflui. Forse Stanislavskij avrebbe detto: “Questa volta ci credo”.
Il neorealismo nella realtà degli spettatori
A fine guerra i soldati americani furono accolti non solo come liberatori, ma anche come rappresentanti di un mondo più avanzato e prospero, estremamente attraente…Il Ddt, la cioccolata, le calze di Nylon…erano i simboli di un nuovo modo di vivere, che alimentò le fantasie popolari e portò numerosi cambiamenti nella vita delle aree urbane e delle regioni più sviluppate. Gli Stati Uniti erano un grande modello, in quanto rappresentavano l’economia più grande del mondo, inoltre non avevano problemi di ricostruzione, dato che la guerra si era svolta altrove. Come spiega S. Gundle[8] Solo nel 1946 furono importati dall’America ben 600 film. In questo contesto, Hollywood non si limitava a educare e a divertire. Esaltava la democrazia americana anticomunista e la prosperità, rendendo così un ottimo servizio al governo italiano di quegli anni.
Le commedie e i western hollywoodiani venivano infatti considerati adatti alle famiglie che costituivano il grosso del pubblico dei diffusissimi cinema parrocchiali, anche se non sempre rispettavano i rigidi precetti morali dei cattolici. Ad esempio Rita Haywort (Gilda) rappresentava un modello femminile radicalmente diverso dalle figure tradizionali delle vergini o madri, santificate dalla Chiesa cattolica e adottate dal fascismo. Anche dive di questo genere risultano però funzionali al sistema: si tratta, nel complesso, di film ottimistici e di pura evasione, senza spinte sovversive.
Nel 1953 l’industria nazionale cinematografica passa dal 10% al 28% nel mercato domestico. La quota americana scende dal 71% al 42% Per fora di cose si dà sempre meno spazio alla denuncia sociale, però nel 1952 l’Italia diventa il più grande centro di produzione cinematografico d’Europa.[9]
Il controllo del consenso avveniva anche a livelli diversi dal cinema, sia pure sugli stessi registri.
Nel 1946 Grand Hotel, rivista ben nota per i suoi romanzi rosa, vendeva un milione di copie alla settimana, offrendo al pubblico un mondo immaginario di sogni romantici.
Nel 1947 nascono altre due riviste analoghe: Bolero Film e Sogno, destinate a quel pubblico di contadine per le quali il cinema era una realtà lontanissima. Esse potevano così disporre dei sogni cinematografici anche fruendo di un dispositivo cartaceo.
In sostanza le forze governative si dimostrano assai abili nel governare i principali dispositivi subpolitici. Non si tratta solo del cinema o delle riviste, ma anche del calcio e del ciclismo, attività molto sentite dall’opinione pubblica italiana, che producevano, in ultima analisi, consensi per il governo.
Gli intellettuali laici negli anni cinquanta dimostravano invece un’assoluta diffidenza per tutto ciò che non fosse un apprendimento rigorosamente fondato in termini cognitivi. Essi convalidavano in buona parte quelle tesi sul cinema inteso come “svago per iloti distratti”[10] che erano già state confutate Da Benjamin nel suo saggio sull’opera d’arte del 1936.
Qui, secondo Gundle[11], la sinistra storica cadde in un “pericoloso tranello”, in quanto si confuse la cultura con l’istruzione. Si aprirono biblioteche e si chiese ai militanti di studiare, ma a quell’epoca gli operai facevano già parte di una sfera culturale che aveva poco in comune con la pazienza e la dedizione allo studio idealizzate dalla sinistra. In questo contesto gli intellettuali venivano sì reclutati, ma non coinvolti nel lavoro pratico. Il risultato fu spesso una reciproca incomprensione. Scrive infatti L. Lombardo Radice:
“Gli uomini di cultura italiani, anche comunisti, non sanno quali siano le esigenze culturali dei lavoratori. I loro sforzi, quando vengono fatti, per facilitare ai lavoratori la via d cultura, hanno in genere come presupposto le esigenze e gli interessi degli strati dell’alta cultura, la tecnica dell’alta cultura, e quindi sono vani.” [12]
In sostanza, molti intellettuali, anche comunisti, restarono indifferenti se non ostili nei confronti di una cruciale transizione culturale che influenzò profondamente la formazione d consenso e l’integrazione della società nell’Italia del dopoguerra. Questo significò lasciare ad altre forze, primi fra tutti i cattolici, campo libero, per mantenere un’influenza sulla vita delle classi popolari con l’uso degli strumenti della nuova cultura.
Il PCI sosteneva un grande numero di pubblicazioni. Dopo vent’anni di censura, la gente aveva voglia di leggere commenti diversi. Però la stampa comunista aveva un tono troppo elevato per la cultura di massa, caratterizzato da un misto di didatticismo e propaganda.
Anche nelle zone rosse, con un esercito di volontari che distribuivano, il PCI stentava a reggere la competizione con i periodici a larga diffusione, molto efficaci a livello subpolitico.
In un quartiere operaio di Torino, le riviste più popolari erano L’intrepido, Grand Hotel, Annabella e Calcio illustrato. In una settimana l’Intrepido vendeva 200 copie, Avanguardia della FGCI ne vendeva 66 e Noi donne 20.
Nel 1954 Giuseppe Turroni, pittore e critico cinematografico, incontrò uno studente universitario di 23 anni iscritto al PCI, il quale ammise di preferire i western e i film di avventura a La terra trema che era troppo intellettuale e difficile. Anche un altro comunista trovava i film intellettuali “vuoti e sterili”. Di gran lunga preferiti i film americani che “anche se improbabili non guastano”[13].
Per quanto gusti del genere andassero in senso contrario rispetto alla morale comunista ufficiale, il PCI fu costretto a riconoscerli per non perdere la simpatia delle masse. Il PCI costruisce sale da ballo, in cui la musica include i nuovi ritmi di origine americana e organizza concorsi di bellezza. In piena coerenza con i rituali di Hollywood, a ogni festa de L’Unità si elegge una stellina, che deve avere caratteristiche fotogenetiche e che potrà fare un provino cinematografico. Nella giuria comparivano i nomi di De Sica, Visconti, Yves Montand, Moravia… tutti coinvolti in un progetto d’oltre oceano, che a rigore non sembrava riguardarli,j[14] ma tutto questo ha una spiegazione.
Con la DC al governo il tessuto nuovo della cultura di massa giunse rapidamente a riempire gli spazi di una cultura nazionale da sempre assente. Per non trovarsi completamente isolato, il partito comunista era quindi costretto ad assimilarsi, più che a competere, con questo nuovo sistema culturale, gestito dalla stretta alleanza fra DC e USA.
Il caso di Vie nuove è illuminante.[15] La rivista, nasce nel 1946 come “settimanale di orientamento e lotta politica”, ma a partire dal 1948 è ormai più simile alla Domenica del Corriere, che non a Rinascita. Molti articoli erano dedicati al cinema hollywoodiano, che la rivista non rifiutò mai in blocco: con le sue ragazze in copertina perseguì la” politica del sorriso”. A varie critiche pronunciate da diversi funzionari del partito, fra cui lo stesso Togliatti, Mario Pellicani, vicedirettore, rispose:
“Come comunisti combattiamo la società capitalistica, ma, fintanto che è la società in cui viviamo, non possiamo ignorare le sue leggi. Possiamo noi ignorare che anche gli operai bevono la bibita zeta-zeta, o che novanta su cento dei film che si proiettano in Italia sono americani?”[16]
Nel 1952 la rivista abbandona il sottotitolo (settimanale di orientamento di lotta e politica) e non pubblica più gli articoli politici, mentre amplia i servizi sulle famiglie e sul tempo libero. La tiratura passa da 258.000 a 400.000 copie, suscitando l’entusiasmo di Longo e altri![17]
Stretto fra il divismo americano il didatticismo della sinistra e le sue tendenze omologanti, il neorealismo rappresentò una scelta tanto difficile quanto incisiva. Sciuscià (De Sica 1946) rappresentò inizialmente un insuccesso. Alla prima di Ladri di biciclette (De Sica 1948), in una sala romana, il pubblico infuriato, chiese indietro i soldi dei biglietti. Ma alla prima di Parigi, in presenza di tremila persone, René Clair padre del cinema francese, corse ad abbracciare De Sica e la rivista Sight & Sound dichiarò che si trattava del più grande film di tutti i tempi. A distanza di una quindicina d’anni, la grande audience raccolta con la messa in onda del film in Italia finalmente gli rese giustizia anche da noi.
Va tuttavia ricordato un sottosegretario italiano allo spettacolo; questi, nel 1952, a proposito di Umberto D (De Sica 1952) dichiarò che il regista “aveva reso un pessimo servizio alla patria, mettendone a nudo gli aspetti più crudi”[18]. Con atteggiamento analogo, alcuni parlamentari attaccarono De Sica e Rossellini, perché non avevano il dovuto rispetto per le autorità religiose e temporali! [19]
Chiaramente De Sica non era un conservatore, non a caso gli autori neorealisti, Bazin compreso, ebbero contatti con la resistenza; il maccartismo al contrario trovava un’espressione a suo modo lucida nello slogan “meno stracci, più gambe”, che metteva in discussione tutto uno stile. Da una parte avevamo un cinema che metteva lo spettatore davanti ai suoi problemi, evitando il lieto fine, dall’altra si collocavano i sogni irreali propinati da tutto il resto del sistema mediatico, sapientemente amministrato dalle forze di governo di quel tempo.
La conflittualità della situazione richiedeva tuttavia un qualche compromesso; fu così che i neorealisti si trovarono a creare anche un genere rosa, che si poneva a metà strada fra le diverse istanze in campo. Nacquero così le serie Poveri ma belli, Pane amore e…. Ricordiamo inoltre, in questo ambito, La bella mugnaia (Camerini 1955), interpretato da Vittorio De Sica e Sofia Loren. Questi stessi attori, cinque anni dopo, metteranno in scena La ciociara (De Sica 1960) uno dei più grandi drammi del neorealismo, che si pone in stridente contrasto con la storiella rosa recitata da loro stessi poco tempo prima.
A parte questo dettaglio, va ricordato che registi americani si ispirarono ai codici degli italiani e anche scritturarono le loro attrici, in quanto donne piene di “passione e concretezza”[20] che attiravano il pubblico certo non meno delle “oche” messe in campo dall’industria hollywoodiana. In questo quadro vanno ricordate alcune opere di A. Kurosawa (L’angelo ubriaco 1948, Barbarossa, 1965…), dove il legame con il cinema italiano risulta molto evidente.
In sostanza il neorealismo si presenta oggi come una grande stagione non solo del cinema italiano, ma anche più in generale di quello internazionale, che ne rimase contagiato in modo profondo. Resta da chiedersi quanto abbia potuto realmente incidere sulla formazione della mentalità dei suoi spettatori e quanto abbia potuto effettivamente mettere in atto la sua nuova definizione dell’arte.
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[1] S. Gundle I comunisti italiani fra Hollywood e Mosca, trad it Giunti Firenze 1995 p 64
[2] V. Ivanov, Doctor Faustus, il problema fondamentale nella teoria dell’arte in Ejzenstejn, in Strumenti critici, n 42-43, pp 447-486
[3] A. Pinotti Piccola storia della lontananza, W. Bonjamin storico della percezione. Milano, Cortina 1999, p 41
[4] Ibid, p 28
[5] Ibid p 34
[6] A. Bazin Che cos’è il cine trad it Garzanti 2000 pp 317-318
[7] A. Bazin, in F. Casetti Teorie del cinema dal dopogerra a oggi Roma, L’espresso strumenti, 1978 p 31
[8] S. Gundle I comunisti italiani fra Hollywood e Mosca, trad it Giunti Firenze 1995
[9] Ibid p 111
[10] W. Benjamin L’opera d’arte cit, p 44
[11] S Gundle I comunisti…cit p 73
[12] L. lombardo Radice Invito al mea culpa in Vie nuove 1.12.1946 p 8
[13] S Gundle, I comunisti…cit p 154
[14] Ibid. p 147
[15]S. Gundle I comunisti…cit, p 147
[16] M. Pellicani, Vie nuove, 2.01.1949, p 2. S. Gundle ci informa nella nota 155 del testo citato che Pellicani scrisse “zeta zeta”, perché “non voleva menzionare la Coca Cola, contro cui i comunisti italiani e francesi stavano conducendo una strenua lotta”. Il discorso di Pellicani risulta comunque molto ambiguo, ma paradigmatico di una situazione.
[17] S. Gundle I comunisti…cit, p 149
[18] Wikipedia, Umberto D, Produzione
[19] S. Gundle I comunisti…cit p 110
[20] Cfr Laura Caruso Le dive italiane del dopoguerra: rinascita di un universo umano, tesi di laurea non pubblicata. UNIMIB, AA 2008-09, p 39.
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