di Deborah Ardilli
La seconda parte del saggio che qui proponiamo dà conto di quanto le attuali tematiche della cura e della teoria del gender siano debitrici alle analisi e alla teorizzazione dei Gruppi di Lotta Femminista degli anni Settanta.
The second part of the essay here published, shows how much the present themes of “Care” and “Gender Theory” are debtors to the analyses and to the theories elaborated by the Groups of Lotta Femminista during the '70s, in the past century.
In riferimento alla rivendicazione salariale, viene ribadita la crucialità di un punto connesso alla necessità di denunciare l’assegnazione femminile al lavoro domestico, anziché di intestarsela come principio di autovalorizzazione da premiare con una gratifica alla produttività:
'Salario al lavoro domesticoì' significa che il capitale dovrà pagare per l’enorme quantità di servizi sociali che attualmente ricadono sulle nostre spalle. Ma la cosa 'più importante' è che chiedere salario per il lavoro domestico significa rifiutare di accettare questo lavoro come destino biologico. E questa è una condizione indispensabile per la nostra lotta. Niente, infatti, è stato tanto efficace nell’istituzionalizzare il nostro lavoro gratuito, la famiglia, e la nostra dipendenza dagli uomini, quanto il fatto che il nostro lavoro è sempre stato pagato non con un salario ma con l’ 'amore' [Federici 1975: 58].
Qui sta il nodo: la precedenza del politico sull’economico, il primato dell’agire sul beneficiare di risultati concepiti indipendentemente dai movimenti che potrebbero produrli. In altri termini: se l’aspetto più importante della richiesta di salario consiste nel prendersi a forza il tempo per la battaglia finalizzata a garantirselo; se ad essere decisivo è il gesto collettivo che interrompe il ciclo, mandando in frantumi la parvenza di naturalezza che impone di misconoscere la prestazione domestica come lavoro subordinato per riaffermarla come disposizione interiore preesistente alla norma sociale che la istituisce; se tutto questo è vero, ne discende che i rilievi avanzati a partire dal punto di vista della paga versata per continuare a svolgere i compiti di sempre mancano clamorosamente il bersaglio. Lo mancano, perché muovono dal presupposto che sia possibile strappare quei soldi allo Stato senza mettere in crisi i rapporti familiari e sessuali che istituzionalizzano, disciplinano e naturalizzano l’erogazione di lavoro gratuito. E lo mancano perché, tramite il riferimento a una battaglia ideologica di cui non colgono appieno il versante materiale, finiscono -nonostante i migliori propositi dichiarati- per abbracciare il paradosso di una politica femminista orientata a governare i propri effetti in modo che nulla di essenziale nella vita e nel modo di organizzarla cambi. È invece a quest’altezza, secondo le femministe del salario, che va individuato e aggredito quel nesso profondamente normante tra lavoro non retribuito, istituzionalizzazione del ruolo e sopravvivenza simbolica che una battaglia tutta centrata sul piano delle coscienze rischia invece di smarrire. Come sciogliere quel nodo, senza creare contestualmente le condizioni per una dimostrazione vivente della possibilità di sovvertire la norma?
Ma perché milioni di casalinghe non riescono a rifiutare o non vogliono rifiutare il lavoro domestico? Nostro compito è cercare di capire il perché di questo comportamento tenendo ben presente che 'le donne hanno sempre fatto bene i conti' per la loro sopravvivenza. A questo proposito è opportuno demistificare un’opinione corrente presso alcune donne del Movimento: cioè che le donne in generale si sposano, fanno il lavoro domestico, fanno i figli, perché non hanno ancora preso coscienza del ruolo che è stato loro imposto, del loro sfruttamento e della loro oppressione. Queste donne del Movimento ne deducono che compito del Movimento è dare battaglia su questa ideologia e far prendere coscienza anche alle altre donne del loro ruolo. Da qui a costruire un contro-ruolo, e poi cercare di imporlo alle altre donne, il passo è breve. Solo che questa sarebbe 'un’ennesima violenza' contro le donne stesse. Ma il problema, dal nostro punto di vista, non è quello di combattere un’ideologia e costruirne un’altra. Il problema è quello di costruire un’'alternativa materiale' in base alla quale le donne possano 'fare altri conti'. […] Non esiste lavoro più istituzionalizzato di quello domestico e conseguentemente non esiste ruolo più istituzionalizzato di quello femminile. Proprio perché il lavoro domestico non è mai stato scambiato con un salario, le lotte su tutte le condizioni del lavoro domestico, private della base materiale indispensabile, la lotta sulla retribuzione, sono state più deboli. Conseguentemente noi donne siamo state 'straordinariamente congelate', istituzionalizzate, nella condizione di lavoratrici domestiche. Quante volte abbiamo detto, noi come tutte le femministe, che l’ideologia corrente vorrebbe far passare la donna non come una persona, ma solo come un ruolo, come un’istituzione? E quante volte però abbiamo ribadito che i padroni, per costruire questa ideologia, hanno dovuto negare anzitutto il lavoro domestico come lavoro contrabbandandolo come missione o espressione d’amore? [Collettivo Internazionale Femminista 1975: 25-27].
Si arriva in questo modo alla questione delle credenziali antipatriarcali di una posizione spesso giudicata troppo sbilanciata sul versante dell’anticapitalismo per potersi fare realmente carico dell’istanza femminista. Per quanto oggi si tenda a passare questo aspetto in cavalleria, sembra difficile negare l’effetto dirompente della riduzione dell’amore a rapporto sociale -come si legge in un altro documento dell’epoca- "tra uno che ha potere e una che non ce l’ha" [Lotta Femminista 1973: 27]. Frontalmente opposta all’immagine pacificante -suggerita molti anni più tardi da Pierre Bourdieu ne Il dominio maschile -di "tregua miracolosa in cui il dominio sembra dominato, o meglio annullato" [Bourdieu 1998: 127], la cognizione dell’amore messa in campo dalle donne del salario era di quelle fatte per spiazzare l’endorsement di femministi maldestri e forare la superficie delle apparenze a prima vista più indubitabili.
Se già le femministe radicali statunitensi e Carla Lonzi avevano scandagliato in lungo e in largo il terreno della soggezione sessuale trainata dall’invito all’amore, screditando senza riserve "il mito della bontà arcaica della coppia e dei relativi ruoli" [Lonzi 1971; Firestone 1970], qui si arrivava a reinscrivere l’intero arco dell’addestramento all’amore eterosessuale nella prosa gelida del lavoro e, parallelamente, a interpretare l’omosessualità come "il più grosso tentativo a livello di massa di svincolare sessualità e potere" [Dalla Costa 1972: 47]. Più che demolire l’alone ideologico associato all’amore eterosessuale a partire dalla rivendicazione di un piacere sessuale non complementare (tutto sommato riconquistabile senza grossi sconquassi dell’istituto familiare), se ne evidenziava la funzione a un tempo occultante e produttiva. Scrive un’altra militante del salario al lavoro domestico, nel testo che affronta più diffusamente la questione:
Abbiamo detto che tale necessità di soddisfare i bisogni altrui per arrivare a soddisfare i propri è stata mistificata agli occhi della donna come amore, perché è una specifica ideologia dell’amore che il capitale ha fondato e sostiene per giustificare il lavoro gratuito. E per quanto qui ci interessa, potremmo sinteticamente definirla come l’ideologia del lavoro domestico quale 'lavoro d’amore'. È l’ 'amore' prima di tutto e non il lavoro che dichiaratamente la donna con il contratto matrimoniale si impegna a dare all’uomo. Le cure assistenziali che vengono menzionate nella formula stessa del contratto matrimoniale –molto simile in tutti i paesi a capitalismo avanzato dalla seconda metà dell’ottocento in poi- appaiono così come corollario conseguente dell’amore, una conseguente espressione amorosa, anziché un obbligo di lavoro preciso quale oggetto primario del contratto. La mistificazione giunge al punto che si parla anche di uno scambio vicendevole di amore, nascondendo dietro l’immagine di uno scambio paritario il fatto che l’uomo acquista la forza-lavoro della donna come sua operaia [Dalla Costa 1978: 18-19].
E precisa:
Il lavoro domestico in quanto l'avoro d’amore' non potrà essere nelle sue mansioni che infinito, un 'continuum' di lavoro. Da questo per la donna deriva che, a differenza dello schiavo e del lavoratore libero, non c’è separazione tra 'tempo di lavoro e tempo libero' […] e conseguentemente ogni luogo per una donna è luogo di lavoro [Dalla Costa 1978: 24].
Occorre tenere presenti queste formulazioni per rendersi conto di quali resistenze sottaciute potessero celarsi dietro a considerazioni contabili relative alla praticabilità dell’obiettivo. Non per nulla la risposta di Cox e Federici alle osservazioni di un’interlocutrice ansiosa di riportare l’analisi verso zone più rassicuranti e di ricordare a tutte che "la cosa essenziale è che siamo un sesso" dotato di qualità specifiche "necessariamente inerenti a questa caratteristica", suona così: "Chi può dire chi siamo? Tutto quello che oggi possiamo dire è che cosa non siamo, nella misura in cui con la nostra lotta conquistiamo il potere di spezzare l’identità sociale che ci è stata imposta" [Federici 1975: 54].
3. Se ci si sofferma sul ricordo tramandato dalla storiografia, in special modo quella nazionale, è facile constatare quanto poco della ricchezza di quell’esperienza raggiunga il presente. Non che la letteratura disponibile, posando lo sguardo su quella che si è convenuto chiamare stagione dei movimenti, ometta sistematicamente di menzionare la vicenda delle donne del salario: tutt’altro. Ma la tendenza prevalente è quella di esasperarne l’eccezionalità, di enfatizzarne al massimo la separatezza, quasi si trattasse di un grano apocrifo insinuatosi abusivamente in un movimento affaccendato in tutt’altre occupazioni e completamente ripiegato sul fronte della scoperta autocoscienziale. Circostanza quanto meno curiosa, se si pensa all’asprezza polemica con cui proprio la principale esponente del femminismo autocoscienziale avvertì l’esigenza di sottolineare (non sempre a torto) le inadempienze di un movimento tutto rabbia e denuncia, nel quale "l’autocoscienza non si sa cosa sia né a cosa serva" [Lonzi 1978: 336] "un movimento -è sempre Carla Lonzi a parlare -pericolosamente incline a fermare il processo all’inferiorizzato che protesta e avanza i suoi diritti" [Lonzi 1978: 458], incapace di un’ "uscita sulla realtà che non siano delle rivendicazioni" [Lonzi 1978: 575]. Avrebbero avuto una ragion d’essere le rimostranze di Lonzi, se il bersaglio polemico contro cui si dirigevano fosse stato del tutto privo di consistenza? Ci sarebbe stato davvero bisogno di insistere tanto sulla necessità di approfittare dell’assenza delle donne dalla storia, se il contesto in cui cadevano quei richiami non fosse stato effettivamente qualificato dalla peculiarità che Anna Rossi-Doria gli ha riconosciuto? E cioè essere stato il femminismo italiano degli anni Settanta dotato di un carattere di massa "superiore a quello di ogni altro paese", e ciò nondimeno avere conosciuto, a partire dal decennio successivo, il paradosso di "venire raccontato come un percorso teorico di singoli gruppi o pensatrici, sia pure grandi" [Rossi-Doria 2005: 3].
Talvolta la spinta non semplicemente a differenziare, ma a estraniare dal contesto e dalle pratiche di movimento le femministe del salario si spinge talmente in là da costringere il lettore a chiedersi da quale oscuro pianeta siano piovute le donne che hanno fatto parte del gruppo numericamente più consistente e territorialmente ramificato fra quelli che animarono la scena femminista italiana del decennio. E da quale pianeta provenissero, viceversa, le donne che quelle proposte discutevano, criticavano, contestavano, a riprova di una dimestichezza che autorizza a ipotizzare una frequenza di scambi più assidua e una circolazione di idee meno compartimentata di quanto abitualmente non si ammetta. Un obbligo non esplicitato di buona creanza prescrive di rimarcare a ogni piè sospinto l’irriducibile alterità del femministe del salario rispetto alle altre, come se l’omogeneità ottenuta per sottrazione semplice dovesse restituire al movimento delle donne, a distanza di decenni, la felice compattezza che non ebbe all’epoca.
Non credo si possa tentare una spiegazione compiuta di quanto appena detto omettendo di segnalare che le femministe del salario scontano, sul piano della memoria storica, il marchio infamante di una provenienza oggi giudicata poco onorevole. E giudizi di questo tipo, come si sa, hanno il potere di far dileguare ogni sfumatura interpretativa. Si apra un classico come la Storia dell’Italia repubblicana di Silvio Lanaro. Si vedrà che, quando si tratta di bacchettare il "frigido neo-marxismo" delle donne del salario [Lanaro 1992: 384], la matita rosso-blu dello storico veneto non conosce esitazioni. Certamente, non le stesse che impedirebbero ad altri di infierire gratuitamente sull’impotenza di questo brano a misurarsi in maniera equilibrata con un fenomeno che non si lascia dedurre facilmente da una schedatura ideologica preventiva, e tanto meno trattare con il ricorso a categorie cliniche.
Ci si cura poco, in generale, di nascondere l’antipatia per un linguaggio -qual era in effetti quello utilizzato dalle intellettuali del gruppo- manifestamente debitore della tradizione operaista. L’accusa ricorrente di economicismo la scopre [Lumley 1994: 297-99], rivelando nel contempo un’aspettativa ormai consolidata (e raramente ridiscussa) nei confronti della missione culturale del femminismo, e cioè quella di riservarsi la giurisdizione sul simbolico, rispetto al quale ogni avventura filosofica è permessa, in modo da lasciare ad altri l’incombenza di intervenire sul politico e sull’economico. Né d’altra parte sembra troppo affollata la schiera delle voci disponibili -tra un’etichettatura e l’altra- a pronunciarsi con altrettanta nettezza anche sul merito della questione: è vero o non è vero che il lavoro domestico risponde alle funzioni che abbiamo visto sopra? Si spiega o non si spiega il fatto che in tutto il mondo la coabitazione eterosessuale, specie in presenza di figli, comporta una crescita di lavoro per le donne e un alleggerimento dello stesso per gli uomini? [Miranda 2011] Chi ha guadagnato dalla scelta, affermatasi come maggioritaria in seno ai femminismi di Stato, di disertare il livello strategico della riproduzione sociale in favore di soluzioni conciliative? È vero o non vero che la risposta neoliberale ai movimenti degli anni Settanta ha aggredito frontalmente le condizioni della riproduzione, spingendo in maniera sempre più decisa verso soluzioni privatistiche?
Forse anche in ragione di queste reticenze, in sede di ricostruzione storica, ci si cura ancora meno di prestare attenzione agli scarti operati dalle femministe del salario rispetto alla cultura dell’operaismo, di prendere sul serio i conflitti che hanno accompagnato quel processo di separazione, di valutare con maggiore attenzione se e in quale misura le tematiche privilegiate dai gruppi del salario intercettassero, radicalizzandola, un’ansia di trasformazione condivisa da altre componenti del movimento. È evidente che un bilancio, in queste note, non è nemmeno azzardabile. Alcune coordinate per porre la questione, tuttavia, possono essere delineate.
4. In diversi centri della penisola, negli stessi anni in cui si diffondevano i primi gruppi di autocoscienza e il femminismo era a livello di informazione generale praticamente sconosciuto [Calabrò, Grasso: 2004], la lotta per spezzare l’identità imposta cominciava a essere intrapresa in termini particolarmente agguerriti dalle donne radunate sotto le insegne del Movimento di Lotta Femminile, rapidamente ribattezzato in Lotta Femminista. A propiziare la nascita del gruppo era stato, nella primavera del 1971, l’incontro tra alcune donne di Potere Operaio e Selma James. Un testo ad uso interno ciclostilato dalle femministe milanesi, intitolato Colloqui tra le compagne dei gruppi femministi autonomi italiani con Selma James dello “Work Shop” inglese, testimonia delle prime discussioni delle idee che di lì a poco confluiranno in Potere femminile e sovversione sociali e dei primi passi in vista della nascita del gruppo. Dopo la divisione del nucleo originario padovano nell’ottobre del 1974 differenze di analisi e di pratica politica [Zanetti 1998: 119], l’esperienza sarebbe proseguita nella seconda metà del decennio con i Comitati per il Salario al Lavoro Domestico. Dai materiali raccolti negli archivi della Fondazione Badaracco, risulta che le città toccate dall’attività dei gruppi fossero, oltre a Padova, Venezia, Trento, Torino, Trieste, Ferrara, Modena, Bologna, Reggio Emilia, Ravenna, Milano, Varese, Firenze, Roma, Pescara, Napoli, Salerno, Gela, Caltanissetta.
Ripescando i fondi di archivio, si vede bene come le questioni che animano il testo di Cox e Federici ricorrano nei primi documenti messi in circolazione dalle militanti che avevano dato vita a Lotta Femminista, caricandosi del senso di una vera e propria scoperta, fatta da donne che avevano saggiato le vie dell’emancipazione sia tramite il lavoro fuori casa (prevalentemente nella scuola o all’università), sia attraverso l’impegno nei gruppi della nuova sinistra. Come si legge in un bozza di discussione per il salario alle casalinghe redatta dalle femministe di Modena e Ferrara nel giugno del 1972:
Una delle scoperte principali che abbiamo fatto quando abbiamo cominciato a guardarci intorno 'da donne' è stata proprio la casa, la struttura familiare come luogo di sfruttamento specifico della nostra forza-lavoro. Dovevamo per forza privilegiare nella nostra analisi questa sfera 'privata', queste mura domestiche al di fuori delle quali si ferma l’analisi marxista delle classi, nonché la pratica di organizzazione politica della sinistra, parlamentare e non. Dentro la casa abbiamo scoperto il lavoro invisibile, questa enorme quantità di lavoro che ogni giorno le donne sono 'costrette' ad erogare per produrre e riprodurre la forza-lavoro, base invisibile perché 'non pagata' ? su cui poggia l’intera piramide dell’accumulazione capitalistica [Lotta Femminista: 1972].
Ma come tradurre politicamente la scoperta della fecondità di un punto di vista dichiaratamente parziale e situato? Attraverso quale pratica articolare quella che oggi chiameremmo l’intersezionalità tra genere e classe? Per rispondere a questi interrogativi, occorre tenere presente un imprescindibile dato di contesto. Se l’infittirsi dei contatti e l’afflusso di documenti provenienti dal movimento statunitense aveva facilitato l’orientamento di molte verso la nuova problematica, la presenza in Italia di formazioni rivoluzionarie che costituivano "la più numerosa forza di Nuova Sinistra a livello europeo" [Ginsborg 1989: 424] complicava non poco le scelte di quante vi militavano -per lo meno nei centri in cui l’attività dei soggetti politici formatisi sull’onda dell’autunno caldo -non si era ancora assopita. Shulamith Firestone, in pagine famose e spazientite, aveva tagliato corto con le ausiliarie della sinistra incuriosite dal femminismo, prefigurando per loro nessuna reale possibilità di azione, tranne che "aumentare la tensione che già minaccia di estinzione i loro logori gruppi" [Firestone 1970: 48].
In concreto, tuttavia, il problema si poneva in forme più complesse e articolate di quanto quella profezia -in alcuni casi puntualmente realizzata- non consenta di cogliere. Ci vuole poco, in effetti, ad assemblare un’antologia di affermazioni eterossesiste prelevate dalla cultura dominante e sufficienti a motivare la scelta di militare sul fronte opposto. Ma verificarne l’influenza sulla controcultura che si diceva rivoluzionaria, all’interno della quale per molte donne si era svolto un importante apprendistato politico, poteva dar luogo a un’insofferenza tanto diffusa quanto incapace di attivare automaticamente una risposta. La forza dei legami personali, così come l’abitudine a mobilitare gli altri e a concepire la militanza come un esercizio prolungato di coscienza e di eloquenza rivolto all’esterno, costituivano un ostacolo enorme alla riflessività del partire da sé.
Come muoversi, allora, per non mancare l’appuntamento con il femminismo? Il vuoto storiografico che, fatte salve alcune indicazioni utili per un avvio di ricerca [Petricola 2005: 203], pesa ancora su un capitolo meno indagato di quello dei rapporti tra femminismo e movimento studentesco, non consente di dire molto. Quello che si può affermare con certezza, tuttavia, è che i percorsi di avvicinamento al femminismo non avvenivano lungo una traiettoria omogenea, né secondo tempistiche sincronizzate. Far nascere collettivi di autocoscienza collaterali ai gruppi di appartenenza rinunciando, in cambio della vacanza, a influire sulla linea politica? Istituire commissioni femminili all’interno dei gruppi e aprire logoranti fronti di discussione con le dirigenze maschili? Seguire l’esempio delle francesi della tendenza lotta di classe e gettarsi a capofitto nel movimento delle donne nella speranza di reclutare nuove forze da restituire alla causa del marxismo rivoluzionario? Erano questi alcuni dei nodi che le donne della nuova sinistra erano chiamate ad affrontare.
È d’abitudine calendarizzare al 6 dicembre del 1975 il momento in cui i dilemmi si sarebbero definitivamente sciolti per sfociare nell’urto frontale tra femministe e sinistra extraparlamentare. Nel picco alto della presenza pubblica del movimento, la diligenza militante delle compagne, "la pazienza nell’incastrare femminismo e comunismo come pezzi di una matrioska" che fino a quel momento era sembrata a prova di bomba [Gramaglia 1987: 19], pare improvvisamente esplodere: innescando -a giudizio di alcuni- il processo di riflusso di massa nel privato che avrebbe contraddistinto la fase successiva [Balestrini, Moroni 1997: 496].
Il riferimento, naturalmente, è agli scontri di piazza a Roma tra femministe e militanti di Lotta Continua in occasione della manifestazione nazionale per l’aborto, quando giovani del servizio d’ordine e della sezione Cinecittà tentarono di sfondare il corteo in nome dell’unità di classe: scontri che di lì a poco avrebbero avuto ripercussioni catastrofiche su un’organizzazione politicamente già indebolita dall’esaurimento della forza operaia nelle fabbriche, nonostante la quota di diecimila iscritti raggiunta quell’anno avesse segnato il punto massimo della sua espansione quantitativa [Viale et al. 2006: 76]. Generalmente assunta come caso paradigmatico della contraddizione tra organizzazioni operaiste e femminismo, la vicenda di Lotta Continua ha monopolizzato l’attenzione, inducendo molti osservatori a postdatare il momento della resa dei conti e a individuarne il rilievo specifico nel quadro di una diaspora organizzativa che prelude alla sparizione politica.
Resta però da osservare che la definizione di un quadro meno parziale dei rapporti tra femminismo e nuova sinistra potrebbe trarre qualche spunto dalle circostanze che hanno visto nascere Lotta Femminista. Si trattava in effetti, per le femministe del salario, di offrire uno sbocco politico a donne in parte (ma non solo) provenienti da e in rotta con Potere Operaio [Dalla Costa 2002], nel momento in cui l’organizzazione guidata da Franco Piperno e Toni Negri, messa in difficoltà dal recupero sindacale sulle vertenze operaie, archiviava ogni ipotesi di unità di azione con il gruppo del Manifesto e si avviava speditamente a lanciare la formula politica del "potere operaio per il partito, per l’insurrezione, per il comunismo" [Grandi 2003; Donato 2014].
Si conoscono naturalmente gli omaggi che, a distanza di decenni, alcuni fra i padri nobili dell’operaismo hanno ritenuto di dover tributare alla creatività del femminismo, orientando per altro il proprio interesse a favore di una versione molto diversa rispetto a quella incontrata dal professor Negri nelle aule dell’ateneo di Padova. Tuttavia le cose appaiono in una luce diversa se rimesse in prospettiva. Avrebbe potuto esserci spazio per le femministe del salario all’interno di una formazione che, rivolgendosi dalle colonne del mensile ai competitori nel campo politico della sinistra extraparlamentare con l’ambizione di mostrare una comprensione del fenomeno femminista sconosciuta agli altri [Frabotta 1973: 187-191], non esitava ad assimilare la specificità eversiva del femminismo allo stadio luddista nel cammino evolutivo della lotta di classe? Quale reale importanza poteva assumere il riconoscimento del lavoro casalingo come indirettamente produttivo, se interpretato nell’accezione ausiliaria di contributo al processo rivoluzionario? E a quale processo rivoluzionario avrebbero dovuto contribuire le femministe, posto oltretutto che l’andamento non proprio arrembante delle lotte autonome dell’operaio-massa aveva indotto il gruppo dirigente di Potere Operaio a premere l’acceleratore sulla via organizzativa delle avanguardie: "sulla via addirittura -per usare le parole di Toni Negri- della liberazione delle avanguardie soggettive dai livelli precostuiti di autonomia che, dopo essere stati fondamentali nella lotta sul salario, rischiano ora di diventare soffocanti?" [Negri 1971: 51].
Ci fosse stato qualche dubbio residuo in merito, l’irruzione dei militanti del Potere Operaio romano al seminario separato sull’occupazione femminile organizzato all’università dalle femministe del salario nel luglio del 1972 avrebbe rapidamente provveduto a dissiparli, confermando le ragioni di un disaccordo che si sarebbe ulteriormente esplicitato nella seconda metà del decennio nella polemica con l’Autonomia operaia e con i mille fiori appassiti della lotta armata, come titolava nel 1977 un numero speciale della rivista "Le operaie della casa" [Zanetti 1998: 102 sgg.]. In ogni caso, è sufficiente porsi queste domande per capire come mai le ex operaiste optarono fin da subito ed esortarono le altre (politiche e non politiche) a optare senza esitazioni per l’autonomia, dichiarando in questo modo tutta la propria indisponibilità a sperimentare il femminismo nelle modalità dimidiate della doppia militanza. Non avrebbero lesinato in sarcasmo, a questo riguardo, le autrici di un articolo apparso a firma di Lotta Femminista sul primo numero di «Sottosopra» con il titolo — perfidamente ingannevole per un pubblico abituato a stabilire tra il primo termine e il secondo un rapporto di subordinazione- di Femminismo e lotta di classe. Dopo avere espresso un completo disinteresse a convincere della bontà delle proprie posizioni "leaders che da anni sono in politica e hanno fatto scelte che a loro sembravano ben motivate", le femministe aggiungevano:
Solo da poco tempo, e cioè da quando il movimento femminista si è conquistato forza e potere, il fronte del 'dopo la rivoluzione' si è spezzato in un arco di sfumature che vanno da quelle decisamente 'troglodite' ("le donne sono reazionarie e la loro sola speranza di libertà è il lavoro") a quelle più progressiste ("la questione femminile esiste ed è 'in qualche modo' legata alla lotta di classe"). Per noi, invece, femminismo vuol dire riaprire la questione su cosa si intende per classe, lotta di classe, aree di scontro politico, rivoluzione economico-politica e rivoluzione culturale (abbiamo dimenticato niente?) [Lotta Femminista 1973b].
Che non si trattasse soltanto di dotarsi di strumenti più efficaci per la propaganda a favore del salario al lavoro domestico è, d’altronde, attestato dalle attività del gruppo. Fu per esempio l’impegno messo in campo nel giugno del 1973, in occasione del processo a Gigliola Pierobon, a favorire una mobilitazione che rappresentò la prima vera azione organizzata del femminismo in Italia tesa a imporre all’attenzione pubblica la questione dell’aborto. Furono campagne di controinformazione e vertenze come quelle portate avanti per tutti gli anni Settanta contro il reparto ostetrico dell’ospedale S. Anna di Ferrara a squarciare il velo dei crimini di pace perpetrati in nome della scienza ginecologica e a mettere in evidenza il peso del potere medico sul controllo delle donne. Fu l’attivismo di un gruppo che in Italia contava numerose aderenti tra insegnanti, ricercatrici precarie e studentesse a consentire un approccio critico alla riforma della scuola (era l’epoca in cui i decreti delegati introducevano la collaborazione tra insegnanti e famiglia) e a quella che più tardi ci saremmo abituate a definire femminilizzazione del lavoro. Fu l’attenzione costante al problema della riduzione del tempo di lavoro a consentire alle femministe del salario modenesi di reimpostare in maniera originale la lotta per i servizi pubblici in una regione che si voleva all’avanguardia su questo fronte, contestando un’organizzazione sociale della riproduzione concepita in subordine alle esigenze della produzione e tale da raddoppiare il fardello del lavoro femminile. Tutto questo era stato l’effetto di quel gesto di riduzione al lavoro domestico che oggi viene giudicato da tanti povero, angusto, incapace di misurarsi con le articolazioni complesse della realtà sociale. Un giudizio che, per motivarsi, è costretto addirittura a mettere sotto traccia un’evidenza attestata dai fatti: non è mai esistita -né in Italia, né altrove- una sola maniera di esprimere la richiesta di salario al lavoro domestico.
5. Seguendo le traiettorie contemporanee che esplicitamente si richiamano all’esperienza iniziata quarant’anni fa, è facile arrivare alla conclusione che la questione della cura rappresenti l’eredità viva del patrimonio di idee che le femministe del salario rubricavano, per le ragioni sopra indicate, alla voce più ruvida di lavoro domestico. Smorzata la carica antagonista degli anni Settanta e caduta la richiesta di salario senza contropartita, intorno alla cura si annodano oggi fili di ragionamento portati a sottolineare il doppio carattere del lavoro riproduttivo, individuandovi potenzialità di autovalorizzazione alternative alla logica di mercato. Anziché seguire questa linea, ed entrare nel merito delle analisi e proposte che vi si associano, vorrei tentare una deviazione. La prima tappa del percorso che propongo prevede un salto di vent’anni rispetto al periodo considerato finora e porta ad Amherst, Massachussets. È qui che, nel dicembre del 1996, nel corso di un colloquio sponsorizzato dalla rivista Rethinking Marxism, un’esponente tardiva della seconda ondata pronuncia un discorso dato alle stampe, l’anno successivo, con il titolo di Merely Cultural [Butler 1997].
Meramente culturali: il titolo dell’intervento riproduceva -citandolo ironicamente- il capo d’accusa fatto pendere dalla sinistra ortodossa (si suppone ben rappresentata nella sala della conferenza) su movimenti che, nel frattempo, avevano visto ampliarsi lo spettro dei soggetti impegnati nella politica sessuale fino a includervi, oltre alle femministe, lesbiche, gay, transgender e intersessuali. Gli effetti di ingiustizia sociale riferibili all’incidenza del privilegio eterosessuale, evidentemente, non bastavano a indurre gli ortodossi a rivedere il pregiudizio portato a identificare nella new gender politics l’arma di distrazione di massa capace di distogliere l’attenzione dalle condizioni materiali di vita dei gruppi subalterni. Il pregiudizio in questione, come si è visto, aveva una storia alle spalle a cui poter attingere per aggiornare il proprio repertorio argomentativo. La teoria chiamata a sorreggerlo si basava, a propria volta, sul ricorso a una distinzione tra struttura economica e sovrastuttura ideologica talmente rigida da non poter far altro che alimentare i processi di scomposizione imputati al settarismo dei nuovi attori sociali.
A prendere la parola per chiedere ai puristi della lotta di classe se avessero mai seriamente esaminato le ragioni storiche che hanno determinato la nascita dei movimenti sociali così duramente criticati era — chiaramente è di lei che sto parlando — Judith Butler. Al suo attivo si contavano, in quel momento, i saggi che hanno gettato le basi della concezione performativa del genere come componente attiva della teoria queer e, a questi complanare, una partecipazione al dibattito femminista motivata dalla necessità di problematizzare la presunta evidenza ontologica della categoria donna in un contesto di critica alla politica della rappresentanza. La partita si giocava contemporaneamente, in questo modo, su due tavoli: da una parte, contro una frazione della sinistra ancora incapace di accorgersi che la regolazione sociale del sesso è sistematicamente legata al modo di produzione che fa funzionare l’economia politica. Dall’altra, contro aree del femminismo pervase da assunti eteronormativi portati non solo a istituire nuove forme di eslusione e gerarchizzazione, ma a precludersi completamente la comprensione del significato sociale della new gender politics.
Mi sembra importante soffermarsi su questo contributo, tardivamente tradotto in italiano, almeno per due ragioni. La prima: è significativo che una filosofa nota per aver mutuato una parte consistente della propria strumentazione concettuale dal post-strutturalismo francese, e spesso accusata di aver disertato il campo della materialità corporea precisamente per effetto di quell’apporto teorico, attinga in maniera tanto vistosa alla lezione femminista dei decenni precedenti per replicare ai fustigatori del meramente culturale. È in effetti questo lo scritto che, in maniera più esplicita di altri, sembra dar compiutamente ragione dell’intenzione programmatica affidata alla prefazione di Gender Trouble:
'Questioni di genere' è stato anche un lavoro di traduzione culturale. Ho applicato la teoria strutturalista alle teorie statunitensi relative al genere e alle implicazioni politiche del femminismo. Se, in alcune versioni, il post-strutturalismo sembra essere un formalismo, lontano da questioni relative al contesto sociale e da finalità politiche, non così è stato per le recenti rielaborazioni nordamericane. In effetti quello che mi stava a cuore non era applicare il post-strutturalismo al femminismo, ma sottoporre quelle teorie a una specifica rielaborazione femminista [Butler 1990: VII].
Difficile non accorgersi, avendo Merely Cultural sotto gli occhi, che la specificità femminista di questo lavoro di traduzione va riferita allo sforzo di collocarlo al livello strategico della riproduzione sociale. Chiedersi per quale motivo "un movimento impegnato a criticare e a trasformare i modi in cui la sessualità è regolata socialmente non debba essere considerato centrale per il funzionamento dell’economia politica e, contestualmente, ribadire che la produzione del genere deve essere intesa come parte del modo di produzione dell’umanità stessa secondo le norme che riproducono la famiglia eterosessuale, equivale a intercettare un aspetto importante del discorso che ho provato a ricostruire nei paragrafi precedenti. Significa assegnare un fondamento materiale alla genealogia che indaga la posta politica in gioco quando vengono designate come origine e causa quelle categorie identitarie che in realtà sono effetti di istituzioni, pratiche, discorsi. È in questo modo che la filosofa può ricordare tanto ai fustigatori del meramente culturale quanto ai cultori del puramente identitario che le lotte per trasformare il campo sociale della sessualità acquistano importanza economico-politica non soltanto perché possono essere direttamente collegate alla questione dello sfruttamento e del lavoro non pagato, ma anche perché non si lasciano nemmeno decifrare senza includere nella comprensione della sfera economica tanto la riproduzione di merci quanto la riproduzione sociale di persone. Ne discende che la marginalizzazione o il disciplinamento di sessualità non conformi rispetto alla norma egemone non possono essere trattate soltanto come questioni di mancanza di riconoscimento culturale, affrontabili tramite un risarcimento simbolico. Il fatto -sottolinea Butler- è che la mancanza di riconoscimento culturale non può essere concepita, nemmeno analiticamente, senza tener conto dei suoi effetti di oppressione materiale".
Si potrà certo obiettare che non sono poi moltissimi, nell’opera di Judith Butler, i luoghi espressamente dedicati alla questione del lavoro riproduttivo gratuito. Eppure non è possibile minimizzare il rilievo teorico e politico di questi passaggi. Un’osservazione importante si trova per esempio in Che fine ha fatto lo Stato-nazione?, nel contesto di un ragionamento che prende polemicamente di mira la sopracitata Hannah Arendt per avere avvallato una nozione di politica pregiudicata, a giudizio di Butler, dall’oblio della sfera economica riproduttiva. Con quali conseguenze?
Questi umani spettrali privati di peso ontologico -che non superano la prova di intelligibilità sociale richiesta per un riconoscimento minimo- includono coloro che per età, gender, razza, nazionalità e status non solo sono squalificati per la cittadinanza, ma sono attivamente 'qualificati' per essere 'senza-stato'. Quest’ultima nozione può ben essere significante, dal momento che coloro che sono 'senza-stato' non sono semplicemente spogliati di status; è stato accordato loro uno status e sono preparati per il proprio spossessamento e dislocamento; diventano senza-stato proprio perché soddisfano certe categorie normative. In quanto tali, costoro vengono 'prodotti' come senza-stato nello stesso momento in cui vengono gettati a mare dalle modalità giuridiche dell’appartenenza. Questo è un modo per capire come sia possibile essere senza-stato all’interno dello stato, come appare chiaro per coloro che vengono incarcerati, resi schiavi o che risiedono e lavorano illegalmente. In maniere differenti sono contenuti, significativamente, all’interno della 'polis' come il suo esterno interiorizzato. La descrizione di Arendt ne 'La condizione umana' lascia senza critica questa particolare economia in cui il pubblico (e la sfera propria della politica) dipende essenzialmente dal non-politico o, piuttosto, da ciò che è esplicitamente depoliticizzato; suggerisce che solo attraverso il ricorso a un’altra struttura di potere noi possiamo sperare di descrivere l’ingiustizia economica e gli spossessamenti dai quali dipende il sistema ufficiale della politica, che riproduce di continuo come parte dei suoi sforzi di autodefinizione nazionale [Butler, Spivak 2007: 38-39].
Non è difficile riconoscere nei 'senza stato' di Judith Butler un’eco dei 'senza potere' e dei senza salario di cui parlavano negli anni Settanta le femministe. Tanto più che sono proprio considerazioni come queste -e vengo alla seconda ragione per cui è importante tener conto delle precisazioni contenute in Merely Cultural- che hanno permesso alla femminista statunitense di collegare in maniera originale la questione di genere a quella, più ampia, della vita precaria e indegna di lutto, trattenuta nella penombra della vita pubblica e ai margini dell’intelligibilità sociale. "Il motivo per cui qualcuno non sarà pianto o è già stato giudicato indegno di lutto -scrive Butler- sta nel fatto che non esiste una struttura di supporto per quella vita. Questo implica che essa, secondo gli schemi dominanti di valore, è svalutata e non considerata degna di sostegno e protezione" [Butler 2012: 21-22]. Muove da qui l’esigenza butleriana di ripensare il politico a partire dalle condizioni precontrattuali, mai espressamente stipulate, della relazione sociale: che cosa c’è dietro la svalorizzazione e la distribuzione differenziale della precarietà? Quali operazioni consentono di cancellare il retroscena della politica e quali invece consentono di convertirlo nel suo oggetto esplicito? Che cosa espone allo sfruttamento la condizione di vulnerabilità e di dipendenza da cui è impossibile evadere una volta per tutte? Come controllare i fattori sociali che consentono di condurre una vita che possa essere vissuta? Sono queste le domande poste con maggiore urgenza dalla filosofa statunitense [Butler 2004b; 2009; 2013]. Dopo quarant’anni, per le femministe forse è arrivato il momento di ripensarci: tenendo a mente di avere una storia alle spalle.
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