di Adriana Perrotta Rabissi
Il romanzo di Paola Masino Nascita e morte della massaia è una feroce demitizzazione del ruolo della massaia considerato l'essenza naturale del femminile. Scritto in una lingua sorprendentemente moderna a distanza di quasi settant’anni costituisce una lettura imperdibile ancora oggi.
Birth and death of the housewife, a novel written by Paola Masino, is a ferocious demystification of housewife role, which is considered the natural essence of female attitude. The novel is written in a surprisingly modern language: although it was writeen 70 years ago, it constitutes must-read still nowadays.
Geburt und Tod der Hausfrau ist ein Roman von Paola Masino. Das Buch ist eine grausam Entmythologisierung der Hausfrau Rolle, dass die naturalisch Wesen der Frauen erwogen ist. Das Roman in einem außerordentlich modern Sprache geschrieben ist. Obwohl das Roman seit 70 Jahren geschrieben war, ist noch heute ein Muss.
Paola Masino scrisse dal 1938 al 1940 il romanzo Nascita e morte della massaia, che dopo una uscita a puntate su un periodico fu pubblicato nel 1945 . Il libro è suddiviso in nove capitoli, che costituiscono le tappe di un romanzo di formazione femminile. Quando uscì apparve dissacrante, tanto che per la pubblicazione sul giornale Masino dovette adattarsi ad alcune modifiche lessicali, perché non fossero identificati ruoli pubblici e il paese di svolgimento della storia. Il romanzo riscosse consensi e successo nell’ambito della critica letteraria, ma non divenne certo un best seller. Anche nella mia lunga esperienza di insegnante di Storia della Letteratura italiana non ho visto citare l'autrice in nessun manuale scolastico, a differenza di altre scrittrici del Novecento, sempre troppo poche, rispetto alla pletora di scrittori indicati.
L’ho scoperta, come lettrice, tardi e ho anche sperimentato la difficoltà - più di una volta ho interrotto la lettura del romanzo, per riprenderla tempo dopo.- la difficoltà di proseguire speditamente nella lettura di un testo non lungo, scritto in una lingua che resta sorprendentemente moderna nella struttura sintattica e nelle scelte lessicali a distanza di quasi settant’anni, un racconto ricco di visioni, immagini inedite, a volte disturbanti, caratterizzato da cambi di registro e di generi letterari all’interno di uno stesso capitolo, una narrazione nella quale si alternano senza preavviso un io narrante e una narratrice esterna, provocando spaesamenti e disorientamenti che rendono la lettura imprevedibile.
Nel 1982 è stato riproposto da una casa editrice femminista, anche allora ha suscitato sorprese e consensi, è stato oggetto di studi e convegni da parte di studiose, ne sono stati riconosciuti il valore letterario e la carica eversiva, ma sebbene si fosse in tempi, costumi e sensibilità mutate rispetto al momento della prima uscita, il libro e l’opera complessiva di Masino sono restate letture di nicchia, amatissime da pochi/e, ignorate dai e dalle più.
Uno dei meccanismi fondamentali adottati da Masino consiste nel rovesciamento in negativo, a volte parodico, di tutte le fantasie e le aspettative di una donna legate al ruolo femminile socialmente e storicamente determinato di perfetta padrona di casa.
Un’ansia di perfezione ossessiva spinge la massaia a tentare di assolvere le varie funzioni legate al ruolo nel modo più accurato possibile, secondo il modello imparato osservando altre donne, ascoltando discorsi.
Nei momenti nei quali è presa da una fanatica smania ogni impegno nelle cure domestiche è causa di comportamenti nevrotici, esasperati, come ad esempio la verifica della pulizia della casa, che la porta a leccare i pavimenti di marmo per accertarsene.
Altrettanto ossessivi sono i controlli per i possibili furti da parte dei e delle domestici/che: con grande energia la massaia passa in rassegna tutte le provviste, la biancheria, gli armadi, finché decide di liberarsi di chi ha rubato.
Invano il maggiordomo osserva saggiamente che il farsi derubare entra nella saggezza della padrona di casa[1], la massaia, assumendo plasticamente la posa della Dea della Giustizia, decide di liberarsi di tutta la servitù, riservando eroicamente a sé tutte le funzioni svolte fino ad allora dal personale domestico .
A questo punto del suo percorso:
“la massaia, se pur serbava ancora una certa intelligenza, era tuttavia entrata nella pericolosa via dell’amore della propria angoscia, cristallizzando il mondo intorno ai servi. […] Nella massaia la cristallizzazione avveniva con un moto blando che le dava l’apparenza di quella provvida ebetudine, peculiare di quasi tutte le donne e tanto celebrata dagli uomini”[2].
In questa situazione decide di dare un pranzo in onore dei personaggi importanti del luogo per compiacere il marito, si impegna allo spasimo ma sarà un completo fallimento.
In lei è un alternarsi continuo di senso di onnipotenza per aver trovata "la mia via, la via giusta di ogni donna"[3] e di dolorosa presa d’atto della insignificanza della realtà che vive.
Neanche le fughe improvvise in posti sconosciuti, dalle quali però tornerà sempre indietro, neppure i tentativi di scrivere memorie, o le ribellioni manifestate apertamente, la salvano dalla monotonia e dalla frustrazione, soprattutto dalla mancanza di senso della vita, che la consumano fino alla morte.
Non c’è redenzione, non c’è speranza, nel romanzo di Masino, solo una rappresentazione senza indulgenze di una situazione inevitabile per una donna.
Il fallimento grottesco dei tentativi di impadronirsi delle virtù domestiche e le continue ribellioni e trasgressioni, destinate a trasformarsi in cocenti delusioni, la rendono imperdonabile ai nostri occhi.
Per questa ragione mi pare che la scrittura di Masino, malgrado la potenza evocativa, si iscriva a pieno titolo al campo che ho chiamato delle scritture antipatiche.
Antipatiche perché non prevedono per la lettrice o il lettore alcun momento di godimento sentimentale o estetico, procedono incalzanti nei loro orizzonti feroci di senso.
Anche dopo averla letta, e magari sbuffato per insofferenza, ti accorgi che certe espressioni, certe immagini ti restano dentro, come elementi disturbanti, così non puoi neanche abbandonare il libro, come si fa nel caso di testi noiosi o poco interessanti, perché ti costringe a ritornare, catturata dalla maestria della scrittura.
E’ innegabile che questi sono i libri che alla fine amiamo di più, ci costringono nostro malgrado a un combattimento a corpo a corpo con la nostra interiorità, diventano così strumenti di conoscenza di noi stesse.
La storia della massaia dunque è la storia di una sconfitta, l’impresa eroica[4] da lei tentata di restare fedele a se stessa mentre obbedisce in qualche modo alle attese sociali, prima di tutto della madre e poi di tutti quelli che la circonderanno nel corso degli anni, pur se condotta con determinazione, coraggio e intelligenza, non le riuscirà.
Tutti i tentativi di fuga, reale e fantasticata, messi in atto falliscono.
Neppure i sogni compensano la massaia della progressiva disperazione nella quale sprofonda nel corso degli anni, regolarmente i sogni si trasformano in incubi, che la lasciano spossata e inerte.
Non ci sarà riscatto finale, non ci sarà una ricomposizione delle parti disperse di sé, dopo le varie peripezie, le imprese,[5] in un equilibrio riconquistato, ma una resa totale e completa ai compiti previsti dalla sua funzione, che alla fine la divora; neanche la morte interromperà il meccanismo dal momento che anche da morta sarà sorpresa a ripetere i gesti a lei imposti dal ruolo forzatamente assunto, a pulire regolarmente la propria tomba
Né la protagonista, né i vari personaggi della storia hanno nomi, quasi assenti descrizioni psichiche o fisiche, caratterizzazioni particolari, i personaggi del racconto rappresentano piuttosto dei tipi, il che fa assumere spesso alla narrazione la dimensione di parabola.
Il primo capitolo del romanzo si apre con queste parole:
“Da bambina la massaia era polverosa e sonnolenta. La madre s’era dimenticata di educarla e ora gliene serbava rancore. […] La bambina taceva, piena di cruccio contro se stessa, destinata a tutti i costi a far morire sua madre di crepacuore. […] Tutta compresa nell’idea di non potere ormai che perfezionarsi almeno in quella triste parte di figlia assassina” [6].
Anche per lei tutto inizia con l’allontanamento forzato dal luogo della nascita, l’inizio di ogni avventura etica e/o fiabesca, ma invece del nido accogliente e rassicurante ci troviamo davanti a un baule, che non ci appare poi molto confortevole, anche se è presentato come adatto- o adattato?- alla bambina, a un ambiente familiare indifferente, a una madre cieca di fronte ai desideri e alle necessità della figlia, che la opprime con ricatti affettivi accusandola di essere la potenziale causa della sua morte, perché non si piega al destino sociale femminile del matrimonio.
Il suo rifugio è un utero non edenico, secondo le rappresentazioni consuete:
“Distesa in un baule che le fungeva da armadio, letto, credenza, tavola e stanza, pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, libri e di relitti di funerali […] la bambina andava quotidianamente catalogando pensieri di morte. Pensava e si mangiava le unghie; finite le unghie e i pensieri masticava tozzi di pane e sfogliava libri in cerca di altro nutrimento. Su lei cadeva la polvere dei soffitti, le si ammucchiava in forfora sul capo, molliche e residui di carte le entravano sotto le unghie, muschio nasceva tra le fessure del baule; e le coperte, nelle quali a volta a volta si avvolgeva per provare le parti del re che sarà decapitato o dell’assassino fatale, erano impastate di muffa e tele di ragni. Dal baule esalava un odore di selve e rovine entro cui la bambina si formava. […] non si era resa conto che se il suo corpo era carne come quella esposta sui banchi dei mercati o appesa nei negozi dei macellai, lei tuttavia vi portava nascosti un pensiero e un sesso che erano la sua ragione. Ma la bambina ignorava il pensiero, vi stava dentro […] Stava quatta, ignara di se medesima, un vero grumo di pensiero senza la minima intelligenza. […] Viveva ormai di quel sesso ignoto che la intontiva. Nasceva da lei un odore forte che la portava a cantare salmi, quasi fosse avvolta in un incenso, cantava il proprio immaginare e andava allenandosi a un sistema raffinatissimo di sensazioni che le preparavano sconsolate delusioni: appena ne sarà uscita, come le accadde più tardi, la spingeranno a un’antica idiozia”[7].
In queste poche frasi è tratteggiato l’intero percorso di vita di una donna che per quanto intelligente, curiosa, ricca di empatia e attenzione al mondo umano, animale e inanimato, non riesce a sottrarsi al destino di donna, quasi non abbia ancora gli strumenti simbolici per sovvertire l’ordine del discorso vigente.
Ma la sua vicenda ci avverte di tutta la barbarie della quale questo ordine è intessuto.
Non ci sono per la massaia gli aiutanti magici delle fiabe, gli uomini della sua vita, anche se miti e disponibili, il padre, l’anziano marito, il giovane bruno, non sono per nulla in grado di aiutarla, tranne che farle qualche carezza affettuosa.
Con le donne non va meglio, o sono superficiali, maschere imprigionate nei ruoli sociali, o sono mamme tutte assorbite dalla dedizione ai figli, incapaci di uno sguardo più ampio.
Anche la fedele domestica Zefirina, uno dei due personaggi chiamati per nome in tutto il romanzo, i'altro è il maggiordomo, rifiuta la relazione amicale paritaria che la massaia le offre, perché la parità propostale è a parole, le fa notare infatti che i soldi li ha la massaia, e in nome della dignità del proprio lavoro.
Neppure con la ragazza selvaggia, il suo alterego di cui si prende cura per un periodo, riesce a instaurare una relazione, perché è troppo chiusa nel rancore e nella recriminazione per aprirsi a un rapporto.
La funzione principale attribuita al femminile, la funzione materna, è analizzata nei suoi effetti perversi:
“Non le si presentava ormai che una possibilità esterna e avvolgente: fare del suo spirito cupola, abbraccio, alveo a quelle cose differentemente materiate […] Una donna nasce con un corpo simile al campo, che deve essere seminato e procreare; se rimane sterile cercherà giustificazione di se stessa nel distribuire la propria pietà su quanto il mondo va di ora in ora partorendo. Insegnerà la fede agli animali di che poi sarà nutrita la famiglia, allatterà i tronchi e i sassi di che sarà costituita la casa, farà da soglia agli uomini che dalla casa partiranno per disperdere la famiglia nei paesi del mondo, come il vento i semi, a creare nuove popolazioni. Fu questo il punto, irreale più del geometrico, donde mosse la donna per tracciare la linea della propria vita”[8].
Credo che sia questa una delle ragioni dello scarso successo di pubblico registrato anche oggi, quando si sono aperti molti spazi rispetto agli anni Trenta in Italia alle donne. Forse il cambiamento dei costumi, che pure è stato notevole, non è stato così radicale, come si tende a credere, e il tono iconoclasta della scrittura di Masino colpisce ancora, specie le donne, principalmente nella sua cruda messa a tema della maternità e dell’essenza della femminilità, ancora rivestite di grande consenso sociale.
E’ vero che l’universo simbolico patriarcale è stato messo in crisi da più di quarant’anni di femminismo, ma per l’appunto non è stato scardinato, permane nelle mentalità di uomini e donne, nelle strutture del lavoro e dell’organizzazione degli spazi vita, nelle istituzioni della cultura e della società; una scrittura così radicale dà ancora fastidio.
Note
[1] Paola Masino, Nascita e morte della massaia, Milano, Isbn edizioni, 2009, p. 196. Le citazioni da Masino sono tratte da questa edizione. [Torna]
[2] idem, p.209-210 [Torna]
[3] idem, p.199 [Torna]
[4] Laura Fortini, Un altro epos. Scrittrici del Novecento italiano, in Paola Bono e Bia Saracini (a cura di) Epiche. Altre imprese, altre narrazioni, Roma, Jacobelli Editore, 2014 [Torna]
[5] Fortini, Un altro epos, cit [Torna]
[6] Masino, cit. p. 5 [Torna]
[7] idem, pp. 5-6-7 [Torna]
[8] idem, p.55 [Torna] |