Lezione prima |
Rubriche - Lezioni d'italiano |
Martedì 11 Maggio 2010 00:00 |
Con questo numero variamo una nuova rubrica che vuole proporre anche un gioco serio. Il titolo, pur molto esplicito, ha pure un sottointeso ironico. Vogliamo richiamare l’attenzione su un uso pigramente sciatto della lingua italiana. Invece di aderire ad appelli oppure sottoscrivere roboanti dichiarazioni sulla necessità di difesa della lingua, la nostra piccola provocazione vuole sottolineare proprio le valenze espressive della lingua italiana in tutta la sua ricchezza. Nessun intento purista o da Accademia della Crusca ci spinge a farlo; la frase italiana ben tornita si può trovare ovunque, anche nel testo di una canzone. Ciò che infastidisce in molte scritture contemporanee, infatti, è l’uso di un vocabolario ristretto, il ricorso allo stereotipo, la via breve del lessico scontato e ripetitivo. In che cosa consisteranno dunque la rubrica e il gioco? Proporremo ogni volta brani più o meno brevi, tratti da qualsiasi testo, non necessariamente letterario, che ci sembrano rappresentare in modo adeguato la ricchezza, la varietà, la modernità, la bellezza della nostra lingua. Infine, l’arco temporale. Non andremo, in linea di massima nel passato oltre il ‘900; non vogliamo proporre una storia della lingua italiana, anche perché lo spessore di un idioma si misura proprio nell’equilibrio fra tradizione e innovazione e dunque si riflette (o non si riflette) in ogni epoca in quello che si scrive in quel momento storico. 1) […] I resti di quello che fu uno degli eserciti più potenti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che discesero con orgogliosa sicurezza. 2) Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu Regia marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi. Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio flacco flacco dell’onda grigia, d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio.
3) […] Nel viola di un tramonto indicibile, gli Alti Tatra si profilano già neri, col mistero profondo delle grandi montagne [...] In questo momento siamo tutti convinti che quella sera azzurra e viola debba in qualche modo esistere, da qualche parte, per sempre, nel mondo iperuranio o nella mente di Dio, come l'idea platonica - perenne e incorruttibile - della sera. Ci sembra che quei profili, quella luce, quel bagliore contengano materialmente, in se stessi, questi giorni che stiamo passando, il loro segreto, come quegli oggetti magici delle fiabe, che basta strofinare per farne saltar fuori un Genio nascosto […]
4) […] Non so che viso avesse neppure come si chiamava, 5) […] Sacrifico la mia vita per l’ideale più puro, più nobile, la libertà umana. 6) Nella mia natura stava in agguato, sempre, una forza che mi soffocava, stavano degli smarrimenti, delle assenze, sorgevano degli ottundimenti che mi annullavano. Da un momento all’altro ero la miseria e l’idiozia medesima. E poi altre miserie, come luci negli occhi, mali di capo. Aggiungi una mutevolezza eterna. Io, insomma, ero a tanti strati, ora ragazzo serio e attivo, ora fanciullina piangente, ora animale strambo, ora adulto freddo ed esperto; e ora di questi strati prevaleva l’uno, ora l’altro. E poiché tutto ciò risvegliava echi infiniti (e uno spavento quasi perenne), non avevo mai pace. Allora, per salvarmi, non vi era nulla, salvo il guardare gli altri, la pietà degli altri. |