Sfocature Stampa
Mercoledì 16 Ottobre 2019 15:58

di Adriana Perrotta Rabissi

 

Sfocature

 

Così osserva Franco Romanò nella lettura di questi racconti che appare in coda ai testi: "Ellissi e rapidità della scrittura, periodizzazione secca e stringata - nella quale si sente a volte l'eco di Agotha Kristoff molto amata dall'autrice - repentini cambi di scenario creano intorno a queste concrezioni di senso un vuoto oppure delle sfocature, delle distorsioni. Tali concrezioni, tuttavia, sono a loro volta una mescolanza di elementi presi dalla realtà, dal sogno, dal libero flusso di pensieri."

Distorsioni

Impegnata a sistemare nel bagagliaio dell’auto una scatola tra valigie, sacche e borse, non si accorge dell’uomo fermo dietro di sé, immobile tranne che per il pomo d’Adamo che sale e scende in modo rapido. Si volta con un breve sorriso accompagnato da uno sguardo interrogativo, l’uomo si riscuote e passa oltre, senza parlare, come preso da urgenza. Tra una divagazione della mente e l’altra ripensa a quando ha rischiato di esporsi a sguardi indiscreto quell’azzardo sporadico, oscillante tra spavalderia e ritegno, di girare in minigonna senza slip. Ma forse l’ha immaginato, o l’ha sognato.

Al lavoro non ama distrazioni che non siano l’abbandono al fiume sotterraneo di pensieri-emozioni nel quale immergersi e nuotare, ogni tanto. Si racconta storie delle quali è protagonista, sorride o rabbrividisce durante la narrazione. Nessun disturbo o interruzione. D’all'esterno, osservando attraverso il vetro opalescente dell’ufficio, sembra si stia svolgendo qualcosa che non può essere interrotto. Quando riemerge constata con soddisfazione di aver ha ampliato per qualche tempo l’arco di vita.

Desidera con forza essere apprezzata, un po’ temuta anche, a volte si chiede quanto influisca sull’ammirazione che ricerca con meticolosità, l’aspetto fisico, o l’intelligenza esibita senza arroganza, la cortesia dimostrata nelle relazioni anche occasionali, la competenza nel suo lavoro

Non sa se preferisce gli uomini o le donne.

Nuota nell’acqua trasparente e calda, quasi immobile, sul fondo un giardino con fiori dal colore acceso; peccato per quel portone di vecchio legno, poggiato sul mare, largo quanto l’orizzonte, che impedisce il passaggio. Sa che dall'altra parte ci sono persone che vorrebbe raggiungere, soprattutto una, di cui sente la voce, ma non trova un varco. Teme che il mare aperto sia mosso, e indugia al di qua del portone. Al risveglio si rammarica

 

Desideri

La mattina si presenta fredda ma limpida; finalmente un giorno in armonia con l’immagine interiore della stagione, allora è tutto in ordine, la giornata scorrerà tranquilla. Da quando ha smesso di lavorare si alza serena, può indugiare nel ricordo dei sogni appena fatti, le sensazioni sono le stesse di quando era bambina, ma ora non può evitare di interrogarsi non sul significato, ha imparato che un sogno vuol dire qualcosa e il suo contrario, ma sullo stato d’animo che l’ha determinato. Solamente rimpiange la perdita della magia di allora.

Nel parcheggio del Porto Antico c’è posto, l’incontro con Mirko la turba un poco; perché poi vedersi in un luogo così denso di ricordi da mettere a rischio l’autocontrollo, che pena sarebbe essere tradita dall’emozione. Si rimprovera la sua solita resistenza a rifiutare inviti rivolti con gentilezza; l’abbandono alla tenerezza di un momento le impedisce di assecondare il proprio desiderio, come se fossero soltanto i gesti arroganti quelli in grado di suscitarle per reazione l’amor di sé.

“Sono qui da un po’, temevo non venissi più. Camminiamo verso il molo?”

“Allora, che cosa c’è? Perché siamo qui?”

“E’ una banalità dire che sei cambiata poco in trent’anni?”

“Abbastanza, ma mi sta bene lo stesso il complimento”

Il fastidio per i modi e le parole scontate non cancella del tutto il senso di leggera euforia che la invade, chissà se anche a ottant’anni sarà sensibile agli effimeri apprezzamenti dei quali, forse, sarà ancora fatta oggetto. Non si è ancora liberata delle insicurezze adolescenziali.

E’ in piedi su una roccia protesa nel mare, le onde si fanno più agitate a vista d’occhio, questa volta decide di scendere nell’acqua, che si rivela azzurra e calma, il mare è chiuso, senso di appagamento, eppure, un momento prima, dalla finestra della sua casa di bambina aveva guardato con timore, misto a desiderio, il mare aperto, pulsante di un moto crescente.

E’ stato piacevole ritrovarsi con un vecchio amore per una conferma, non cercata, di quanto fosse conclusa la relazione già al suo inizio. E’ stata bene, ha mangiato con appetito, chiacchierato del più e del meno, compensando, a distanza di anni, le ansie e angosce provate al tempo del suo innamoramento.

Prova curiosità per la riunione in una vecchia libreria nel cuore della città. Le ha telefonato un’amica: “ Ci rivediamo, un po’ di vecchie e un po’ di giovani che vorrebbero conoscerci. Hanno letto qualche libro, ma non hanno capito molto, non c’è niente in giro in grado di trasmettere davvero quello che è successo trent’anni fa. Quando vengono in libreria parliamo un po’, mi hanno quasi costretto a vederci, non ho saputo dire di no, si tratta di un paio d’ore. Vieni anche tu.” Perché no, le piace sempre incontrare persone; quando lavorava si trattava di incontri obbligati, ora le sembra un lusso scegliersi le situazioni, anche quando si rivelano poco interessanti.

Si è rammaricata per anni di non avere avuto figli, prima era troppo occupata con il lavoro, l’amore, i viaggi, poi, quando ha deciso di fermarsi e provare non sono venuti. Chissà come sarebbe andata se avesse fatto coppia stabile con una donna, avrebbero deciso e ottenuto di avere figli? Si sarebbero trovate insopportabili l’una con l’altra, salvo aiutarsi –dovere o piacere- in caso di reciproco bisogno? Oppure avrebbero condiviso serenamente le loro condizioni di bambine-ragazze –giovani donne e donne adulte, scambiandosi pensieri, esperienze e amore?

Il vano sul retro della libreria, metà magazzino e metà soggiorno con una ventina di seggiole in legno, è confortevole, una decina di donne lo occupa, non si è perduta l’abitudine di portare qualcosa, una scatola di biscotti, salatini, acqua minerale, c’è anche una bottiglia di bianco, secco. Saluti, presentazioni, l’inevitabile imbarazzo del prendere la parola. La più disinvolta, laureata in ingegneria meccanica, lavora in una multinazionale di progettazione di impianti idraulici per usi industriali, rompe il ghiaccio. Fino ai vent’anni non si è interessata ai discorsi delle donne sulle donne, al liceo ha vissuto in classe una situazione di eccellenza femminile. Apprezzata da insegnanti e studenti, ammirata e corteggiata, a volte è corsa in aiuto di ragazzi timidi e miti, maltrattati da coetanee in mille modi. All’università è stata sempre tra le migliori, ha studiato senza eccessivi tormenti e patimenti. Ha confortato amici inconsolabili, piantati all’improvviso dalle rispettive fidanzate, molto più numerosi gli abbandonati che non le abbandonate. E’ proprio una donna nuova, emancipata, lontana, per quanto le è possibile, dal lavoro di cura, autostima senza superbia, rapporti franchi con uomini e donne, individua con precisione e rapidità il proprio desiderio riguardo a persone, oggetti, situazioni. Mentre lei, pur con il pallino dell’emancipazione in testa fin piccola, ha scelto una professione che è pur sempre un’estensione del lavoro di cura.

Un misto di ammirazione e di angoscia la invade, se non si fosse lasciata andare a una sorta di automoderazione, se si fosse ascoltata con maggiore attenzione, chissà quale sarebbe stata la sua vita. A dieci anni, quando aveva conosciuto a scuola la chimica, aveva deciso che avrebbe studiato chimica industriale, per andare a dirigere un'azienda nel deserto. Questo ha sostenuto per tutte le medie e il liceo. Al momento di iscriversi all’Università si è iscritta a Lettere.

Si sente rincorrere mentre si avvia verso casa: “Non ho avuto modo di dirlo prima, parlavamo tutte insieme, volevo dire che vi ammiro molto, voi di una certa età, avete vissuto in momenti più difficili di noi, minori libertà di costumi e maggiori difficoltà ad affermarvi nel lavoro. Eppure siete state così brave a riconoscere i vostri desideri, che siete riuscite a ottenere quello che volevate. Vi invidio anche un po’, io ho buon lavoro e soddisfazioni nella vita, ma volte mi sembra di lasciarmi un po’ troppo trasportare dalla corrente, dal momento, dalle aspettative degli altri. Temo proprio di non avere la vostra forza di volontà e determinazione”.

 

Tavola imbandita thailandese

La focacceria  è piena di clienti,  le commesse  ora  con  una battuta in dialetto ora con  un’osservazione sul tempo, contengono  l’inquietudine che comincia a serpeggiare tra i clienti in attesa  per  lo scorrere dei minuti. Le forme di pane croccante sulle mensole infarinate, le teglie di focaccia oleosa e profumata di salvia e cipolle rallegrano occhi, solleticano nasi e smuovono salive; è l’ultima fermata questa, tutto il necessario per la cena è stato comprato, non è ancora mezzogiorno e fino alle  otto di sera ci sarà il tempo per prepararla con calma.

Il vento, all’uscita del forno, l’investe di un profumo di mare selvaggio, non ancora addomesticato  dai languori  fruttati  e appiccicosi degli oli e delle creme solari. Nel tratto verso casa, ripassato l’ordine delle portate, comincia a pensare a come apparecchiare. Negli ultimi tempi è frequente il desiderio di stupire amiche e amici imbandendo la tavola secondo stili tradizionali di cucine orientali, ci starebbe bene lo stile cinese questa sera, che però richiederebbe cibi difficili da preparare per adattarli al vasellame; vada allora per lo  stile thailandese; le scodelle con i piatti rettangolari, le tovagliette in bambù, le mini-salsiere  smaltate a colori vivaci. Le due composizioni di fiori al centro del tavolo diffonderanno buonumore, unica eccezione l’assenza dell’altarino a Buddha, questo proprio non lo prevede. Contaminerà la scena con gli amati centrini di pizzo, regalo della nonna centenaria.

Abbandona malvolentieri i caruggi per tornare a casa, gli alti edifici che sembrano congiungersi verso il cielo assicurano protezione  mista a quel senso di trasalimento consueto ogni volta che svolta  un angolo, nell’attesa–timore di incontrare l’imprevisto. Sensazione analoga a quella provata nel ricorrente sogno di discesa in una cantina buia, dal pavimento sconnesso, dai muri sgretolati, resa affascinante dai percorsi  labirintici che conducono  all’incontro con il mostro da combattere, ogni volta presentito e mai incontrato.

Mentre dispone i piatti in lavastoviglie riflette sulla propria fragilità emotiva,  responsabile dell’agitazione mantenuta tutto il giorno. Dono recente della raggiunta maturità, che si traduce in  ansia da prestazione, in questo caso appena mitigata dalla consapevolezza della  consolidata esperienza culinaria. Neppure un’eventuale mancanza di tempo giustificherebbe l’insicurezza che ormai l’accompagna sempre più frequentemente. Da quando ha lasciato il lavoro il tempo non è più un problema oggettivo.

Un improvviso scarto, un soprassalto, un odore pungente di gasolio, il motore sputacchia e si spegne, meno male che è in vista della terra dopo tanti giorni di permanenza in alto mare, ci sarà forse da pulire il carburatore. Ancora.

 

Amnesia

Si risveglia con un piacevole senso di riposo. Nessuno dei fastidiosi dolori che l'hanno afflitta da giorni, solo un leggero reumatismo a un ginocchio e una nevralgia agli occhi. Si sente come se avesse dormito per parecchi giorni di seguito. Breve sosta in bagno prima del caffè, si incanta davanti al grande specchio sul lavandino che le rimanda un'immagine assolutamente estranea. Chiude gli occhi, è ancora addormentata, il mattino le ci vuole un po' per mettere a fuoco, ma quando li riapre scorge un viso allarmato, sconosciuto che la fissa a bocca aperta. Impossibiitata a muoversi chiama il marito, che, abituato alle sue richieste di aiuto accorre, più assonnato di lei, sulla porta del bagno.

“Guardami, cosa mi è successo? “

“Mah, non so, mi sembri solo un po' strana, stai bene?”

“Guardami, non sono più io!”

“Andiamo a fare colazione e smettila per piacere, che devo uscire presto stamattina”.

Non è lei e basta.

Caffè silenzioso, cerali, yogurt. Lui esce di casa per primo, lei telefona al lavoro per prendere un giorno di malattia. Davanti allo specchio cominciano le palpitazioni, ci manca anche un attacco di panico. Ripensa all'Asino d'oro, non le è mai piaciuto molto, né a scuola né in seguito, ma lì la situazione era diversa, una vera e propria metamorfosi. Decide di uscire, confidando nel fatto che non venga mandato a casa il medico fiscale, la sua assiduità al lavoro la rassicura. Per strada la ignorano, nei negozi soliti la salutano frettolosamente come fanno d'abitudine, un'osservazione sul tempo e un augurio di buona giornata. Si chiede spesso da dove sia arrivata quell'espressione distratta, che detesta, teme di ritrovarsi un giorno a usarla anche lei, inavvertitamente. Non incontra nessun amico, né amiche; mentre cammina sbircia furtivamente nelle vetrine, sagoma e portamento sono i soliti, pensa che dovrebbe perdere qualche chilo, in vista dell'estate, ma rimanda ancora l'inizio di una dieta ipocalorica, sul viso non ci siamo però.

Non è lei e basta.

Decide di telefonare a Claudio, è un po' che non si sentono, vince il leggero senso di imbarazzo che coglie quando si è appena chiusa una storia e non ci si è ancora accomodati nella dimensione di ex, si è però rimasti amici perché entrambi senza rimpianti. Claudio è libero per una colazione veloce, solito piccolo ristorante, discreto e defilato. Lo sguardo che l'avvolge è di sorpresa ammirazione, non sembra lei, è più giovane, più bella, radiosa, quasi quasi vien voglia di ricominciare a corteggiarla. Non c'è verso di smuoverlo dalla sua aria di piacevole sorpresa, accompagnata da lampi di sguardi ammiccanti. Le ripetute affermazioni di lei di vedersi diversa, irriconoscibile, estranea lo divertono all'inizio, a poco a poco matura in lui l’interesse per una nuova dimensione di rapporto, un gioco di ruolo? Attirato dalla prospettiva di inediti incontri sessuali si eccita, si fa insistente. Dopo un attimo di sbalordimento lei si rende conto che in questo momento per lui si tratta solo della proposta di un gioco erotico. Si alza dal tavolo e esce furiosa dal ristorante..

Non è lei e basta.

 

* * *

 

La bambina

Non ne poteva proprio più della  reclusione in casa. Ormai da tempo si sentiva in forze, gli esercizi nella piccola palestra allestita dal papà erano diventati sempre più lunghi  e complessi, e a detta dell’istruttore, che veniva a casa tre volte alla settimana, i suoi muscoli erano diventati saldi e elastici. Da tempo erano sparite le sbarre di protezione  anticaduta ai lati del suo letto, che ricordava di avere avuto fin dai primi anni di vita, si sentiva finalmente liberata da quella costrizione, pur avendone  apprezzato il sistema  sonoro, una fantasia di scampanellate, che si attivava non appenale sfiorava i bordi del letto. Non appena si era resa conto degli sguardi di apprensione dei genitori e della nonna, che accorrevano a quel suono a qualunque ora della notte, si era preoccupata di tenersi il più lontano possibile dalle sbarre. Ora erano state tolte.

Non era più necessario essere accompagnata da un adulto nel giardino, perché ora portava al collo, pendente da una catenina d’oro, un minuscolo apparecchio elettronico leggero, sottile,  di una lega nuova, simulava un gioiello etnico, segnalava costantemente la sua posizione  perché si potesse intervenire in caso di malore,  l’unica consegna era che non se lo togliesse mai,  né in casa, né in giardino.

Quanti progressi negli ultimi tempi! Aveva smesso di piangere e urlare con la nonna se non le cucinava i piatti preferiti, non ricorreva più ai capricci per ottenere qualcosa e, soprattutto, non vedeva da tempo lo sguardo allarmato dei suoi alle sue intemperanze, segno che erano meno preoccupati del fatto che le capitasse qualcosa durante quelle crisi.

Non aveva capito o non le avevano spiegato chiaramente di quale patologia soffrisse, ma sentiva che si stava avvicinando a una sorta di guarigione, diminuite le pillole somministrate quotidianamente, le sembrava di essere meno assonnata da un po’ di giorni. Forse era venuto finalmente il momento di frequentare una scuola, invece di studiare a casa con le solite maestre prima, i professori poi. Le piaceva studiare, ma le mancava la compagnia di coetanee e coetanei, era stata sempre solo con adulti, attenti e guardinghi nei suoi confronti.

Non vedeva l’ora di abbracciare il fratellino e la sorella maggiore, che per motivi di salute non vivevano a casa, ma in una clinica poco lontano, li aveva visti sempre e solo in skype,  aveva imparato a giocare con loro per lunghe ore i giochi  che si inventavano di volta in volta. Sua sorella era molto brava a proporre nuovi passatempi, mentre il fratellino preferiva sentire raccontare storie, di cui si era scoperta maestra. Erano soliti anche scambiarsi pensieri, emozioni e da un po’ di tempo progetti di vita in comune, avrebbe dato qualsiasi cosa per vederli di persona, toccarli e abbracciarli. Forse anche loro stavano guarendo da una malattia, peggiore della sua, dal momento che non era stato possibile curarli a casa. Dopo lunghe sue insistenze, consulti frequenti con dottori, i suoi si erano convinti a farle incontrare la sorella e il fratello, non aveva capito se in casa o in clinica, ma il momento si avvicinava, lo percepiva dall’eccitazione che si respirava,  colloqui che si interrompevano al suo apparire, tracce di lacrime di commozione sul viso della nonna e della mamma, il papà sempre più taciturno e nervoso.

Pensò di anticipare i tempi, era arrivato il momento di fare qualcosa per loro, di rassicurarli, mostrandosi finalmente autonoma, liberandoli dalla loro continua apprensione. Si avvicinò, inosservata, alla porta del giardino, si tolse la catenina e la appese al cancello, lo aprì grazie al pulsante elettrico, come aveva visto fare dalla finestra della sua stanza, si trovò all’esterno. La nuova sensazione di libertà le provocò un capogiro, si sentì invasa da un’euforia mai provata, avrebbe finito di essere “un peso”, cosa che a volte avvertiva, senza che alcuno glielo avesse fatto mai notare, in questo modo avrebbe contraccambiato tutte le loro attenzioni. Si avviò per la strada, svoltato l’angolo incrociò un bambino, che la guardò incuriosito. Gli si avvicinò sorridente.

Si sentì finalmente felice per la prima volta in vita sua, mentre apprezzava quelle carni dolci e tenere che superavano di gran lunga in gusto tutti i cibi  prelibati preparati per lei dalla nonna.

 

L’onda

L’onda si ingrossa sempre più mentre si avvicina alla riva lentamente, di un turchese indiano marezzato da piccoli fiocchi di schiuma bianca. E’ uno spettacolo formidabile, pauroso e ipnotizzante. Segue dalla finestra il movimento, inchiodata al pavimento. Il suo desiderio più grande è sempre stato quello di abitare sul mare, non vicino al, ma sul mare, magari seduta sul bordo di  una finestra con le gambe che sfiorano una distesa d’acqua calma e calda, come  le accade talvolta di sognare. Altre volte il sogno è più tormentoso, su uno stretto lembo di spiaggia con alle spalle una parete rocciosa che le impedisce ogni via di fuga, vede precipitarsi su di lei una montagna d’acqua, che osserva terrorizzata e impotente, l’acqua la sommerge e poi si ritira lasciandola sorpresa e stordita.

Ha frequentato a lungo fin da bambina una passeggiata costruita sulla scogliera di una città  di mare, c’erano alberghi, negozi, ristoranti, e, verso la fine, un edificio, all’apparenza disabitato, da quando ricordava. Si incantava a guardare le imposte, sempre chiuse, che di anno in anno mostravano segni di decadenza, ruggine, macchie di umido; forse era stato un albergo, per lei sarebbe stata l’abitazione ideale, immaginava che dai piani alti sarebbero stati nascosti alla vista sia la passeggiata che la scogliera, solo mare a perdita d’occhio.

Finalmente ha ottenuto da un’amica la possibilità di realizzare il suo desiderio, ora trascorre una vacanza in una casa in cima a uno sperone di roccia che si protende dalla collina sovrastante a pochi metri di altezza sul mare. Isolata, vi si accede da un piccolo giardino con pergolato, qualche pianta di fico, un tavolino e quattro sedie. Un muretto di tufo e calce, nel quale si apre il cancello d’ingresso, separa l’edificio dalla strada sterrata, che termina poco più in alto in un bosco di ulivi. Di fronte all’offerta di soggiornare un paio di settimane da sola in quel luogo era stata colta da sentimenti contrastanti, eccitazione, ansia mista a una certa paura, proprio per la prossimità all’acqua.  L’aveva rassicurata l’amica che a suo ricordo e a quello dei suoi nonni il mare non era mai entrato in casa dalle finestre, neppure durante le più violente mareggiate.

Ripensa a tutto questo guardando l’onda che ora, più vicina, accenna a incresparsi di schiuma bianca, istintivamente chiude i vetri, una girandola di spruzzi esplode nell’aria davanti a lei, spruzzi che ricadono come fuochi d’artificio, senza neppure sfiorare la casa. Adesso al mugghiare del mare si è aggiunto il frastuono di un intenso temporale, crepitante di fulmini e tuoni. Per un po’ rimane a osservare gli spruzzi che si innalzano sempre più frequenti e le onde sferzate dal vento e dalla pioggia, godendo del suo posto di osservazione, così prossimo e protetto.

Sente un fievole miagolio, c’è un gatto, semiselvaggio, che appare verso sera nel giardino, ha cominciato a lasciargli qualche avanzo, di pesce o di carne, la loro è una convivenza civile, lei pone per terra il piattino, lui osserva a distanza, quando lei si allontana lui si avvicina e comincia a mangiare, con circospezione, pronto a fuggire al minimo suo movimento. Se ora miagola forse è in difficoltà, decide di uscire a dare un’occhiata,  mentre lo cerca con gli occhi, ferma sulla soglia di casa, dal costone sovrastante si stacca una piccola frana di terra infracidita dalla pioggia che sommerge  lei, il gatto, e gli arredi del giardino.

 

La maschera

Cammina sull’argine sterrato del lago, oasi di riparo per uccelli di passo, immersa nei pensieri, nelle ansie, nelle abituali inquietudini. Rare bici la sfiorano, la sorpassano con il loro passo ritmato i camminatori, intenti alla corsa quotidiana, soprattutto uomini. Non può fare a meno di considerare quanto l’età renda più fragili non solo il fisico, ma anche la psiche. Anni prima non temeva di andare da sola, a notte piena, sulla circonvallazione, armata di una tannica vuota, a cercare un distributore di benzina aperto, erano altri tempi, non ancora alimentati dai continui allarmi sulla sicurezza sparsi a piene mani da tutti i mezzi di comunicazione. Ora non può evitare di pensare che è una donna sola, in un luogo isolato, in mezzo a un bosco, da una parte l’acqua e il canneto, dall’altra  l’intricato fogliame, consapevole che neppure l’età la risparmierebbe da una eventuale aggressione sessuale, anche se in un pomeriggio inoltrato. Le fronde degli alberi stormiscono leggermente, ogni tanto un’anatra pare scoppiare in una risata, l’aria immobile l’avvolge come una cappa.

Una figura le viene incontro, alta, vestita con un cappotto nero lungo fino ai piedi, stivali neri, sul viso una maschera di lupo, non quelle di cartone che si indossano a carnevale o a Halloween, ben più raffinata, di una consistenza simile alla pelle, con una folta morbida peluria  bianca e nera ai lati della bocca, dotata di denti aguzzi. Quello che incanta è lo sguardo, due occhi di ambra chiarissima, che sembrano leggerle nei pensieri. Un lieve cenno del capo di saluto e un gesto con la mano guantata che le propone di fare un tratto  del sentiero insieme. La diverte la coincidenza che il giorno precedente ha partecipato a una festa cittadina in maschera, molto ricca di travestimenti, anche da lupo, ma nessuno poteva paragonarsi a quello che le si è parato davanti. Il fascino che gli occhi sprigionano e soprattutto il silenzio che accompagna la proposta la convincono  ad accettare l’invito, la passeggiata riprende, lentamente.

La presenza così discreta e silenziosa, unita alla profondità dello sguardo indagatore, hanno su di lei un effetto tranquillizzante; comincia a sentirsi protetta da quel casuale accompagnatore, o accompagnatrice. Si sorprende a raccontare di sé, dopo le prime considerazioni sul tempo e sul luogo, a una persona che mai più incontrerà, qualcuno che in quel momento è assorbito da lei  e dalle sue parole. Si snodano le riflessioni su quello che le piace, che le sarebbe piaciuto, che la turba, espresse con una libertà raramente provata nei discorsi con amici e amiche. Vorrebbe un cenno di riscontro, un gesto della testa o delle mani, di reazione alle sue parole, la sgomenta un po’ non capire almeno se sorride, se si annoia, solo quella costante attenzione, quegli occhi fissi. Peccato non scambiare pensieri e opinioni. Contemporaneamente prova una sorta di compiacimento nel riuscire a tenere così desta l’attenzione di un’altra persona, donna o uomo che sia.

Arrivata al bivio del sentiero che porta in paese, quasi rammaricata per la fine della passeggiata, gli/le porge la mano in segno di saluto, e si sente afferrare in una morsa ferrea. Sorride, tenta di liberarsi senza riuscirvi, cerca nello sguardo un segno di comunicazione ma si trova davanti a due occhi freddi nella loro trasparenza, privi di espressione. Assalita dal panico cerca di divincolarsi, i denti aguzzi affondano nel suo collo.

 

* * *

 

Metropolitana

Accidenti, ho saltato la fermata. Con tutta questa gente, siamo come sardine in scatola.

Usate i mezzi pubblici, sì se non fossero così pieni.

Che strano, non riconosco il nome di questa fermata, si vede che in metro non potendo cambiare i percorsi cambiano i nomi delle stazioni. Che voglia di attraversare i binari per andare dall’altra parte e tornare indietro, ma mi spaventa l’idea di toccare per sbaglio la rotaia elettrica, comunque qui siamo in un tunnel e non si vede l’altra banchina. C’è un unico corridoio e in fondo un’uscita, senza indicazioni stradali, solo una breve scala.

Chissà dove sono finita, per un attimo mi sembra di essere nel mio sogno, ricorrente ormai da tempo, dello spaesamento in una zona che mi appare estranea, anche se non dovrebbe essere lontana da casa. Nel sogno non c’è nessuno a cui chiedere informazioni, qui ci sono persone ma non voglio, mi basterebbe anche cogliere il numero di un autobus per orientarmi sulla mia mappa mentale.

Ecco fatto, oggi sono senza cellulare. Telefoni pubblici non ci sono più in giro. Ansia. Da che parte vado? Cerco nei dintorni l’altra entrata della metropolitana, ma non la vedo, c’è solo quella dalla quale sono uscita. Di solito a questo punto mi sveglio, oggi no. Prendo una direzione qualunque, un viale alberato, panchine e cartacce per terra. Sono anni che non ho attacchi di panico, ma il ricordo resta vivo, se ci penso mi viene, mi siedo e comincio una respirazione controllata, quella che uso nei momenti di insonnia o di claustrofobia. Funziona, i battiti del cuore rallentano. Non so che ore sono, senza cellulare, ma sta diventando buio, tornerei a casa, se sapessi la direzione da prendere.

I passanti si fanno più radi. L’unica soluzione è tornare in metro, prima o poi incontrerò un controllore a cui chiedere lumi. Ripercorro la strada fatta, arrivo davanti alla stazione, è quella successiva alla mia fermata perduta prima. Scendo i gradini, c’è il via vai delle ore di punta, chi si affretta da un lato delle scale, chi dall’altro. Ormai il mio programma è saltato, entro a stento in un treno strapieno, diretto verso casa mia. Con tutta questa gente, siamo come sardine in scatola.

Usate i mezzi pubblici, sì se non fossero così pieni.

 

Fogli di carne

Diventare bidimensionali può provocare uno stordimento iniziale intollerabile. Anni di preoccupazioni per la linea, per il timore di diventare rotonda, tutto cancellato in un colpo, sono diventata bidimensionale. Sono un foglio di carne. Ma dove saranno finiti gli organi interni, il cervello, l’intestino, lo stomaco, le ossa, non c’è più posto per loro, eppure cammino, se mi pungo una mano sanguino e sento male. Anche la voce è flebile, se la alzo troppo diventa stridula, pur restando poco udibile. Sono persino in grado di sollevare una sedia, tenendola per la spalliera. La faccia è la mia, ma piatta, come riprodotta su un foglio da disegno, o in una fotografia, i  capelli però sono i miei.

Sono diventata un personaggio dei Mestolini, il gioco dei bambini fatto di sagome di legno, a forma di cucchiaino, da rivestire con abiti di cartone, baffi, barba, capelli, collane e accessori vari, per farli diventare i personaggi delle storie messe in scena di volta in volta. Provo a bere, tutto normale, l’acqua non esce. Allora posso anche mangiare. Se riesco a mimetizzarmi bene con vestiti, cappelli e foulard, magari nessuno se ne accorge. Tutt’al più sembrerò anoressica, e quindi di moda. Chissà se devo mettermi dei pesi in tasca quando esco di casa, da bambina mi impressionavano i racconti della bora di Trieste, che sollevava le persone, qui non c’è bora, ma non è che con una semplice ventata faccio vela e svolazzo per la città?

Sono in metro, in un’ora di punta, non riesco a respirare, le persone mi stringono in una morsa, i loro corpi pressati l’uno contro l’altro non trovano resistenza nel mio. Ma come fanno a non accorgersi di me? Se resto chiusa tra le due porte di una carrozza che succederà? Esco di corsa con difficoltà, rischio ad ogni secondo di essere gettata a terra e calpestata da una folla di persone, indaffarate, preoccupate, imbronciate, gioviali, distratte. Spazio vitale, è così, è dai particolari insignificanti che cominciano a generarsi i mostri?

Diventare invisibile per guardare dentro le case, osservare le persone nelle vite quotidiane, mi sarebbe proprio piaciuto. Per strada ho spesso immaginato le storie delle persone che incontravo, ma questa situazione oggi è diversa, mi si scorge in una frazione di secondo, con la coda dell’occhio e si passa oltre. Non ho più il peso e la consistenza necessari a prendere posto in una collettività di persone. Quanti altri fogli di carne ci saranno, stracciati, calpestati, buttati via anche involontariamente. Del tutto invisibile non posso diventare, ma mimetizzarmi sì, contro il muro di un edificio, dietro un cespuglio, nell’ombra di un albero e poi?  Per fare che? Qualche semplice scherzo a un passante?

Mi occorrono idee comuni con altri fogli di carne per poter resistere insieme.

 

Dissolvenze

Questa volta è l’astuccio degli occhiali, vuoto. Nel percorso dall’auto alla porta di casa è sparito. Rigido, grande, colorato, non può essere scivolato sul marciapiede o sulle scale, perché lo avrebbe visto tutte le volte che ha fatto avanti e indietro a scaricare i bagagli dall’auto. Poco male, ne ha altri, è il terzo in un paio di mesi, per gli altri due ha ricostruito le fasi della perdita, per questo non riesce.

Da sempre perde oggetti, a volte di valore, è distratta e non vede molto bene senza occhiali, che si ostina a non portare se non quando legge, guarda film, guida. Distrazione e vista scarsa, un’accoppiata perdente la sua, inoltre qualcosa non  funziona bene nel percorso occhi cervello mente coscienza. Così le è capitato di non distinguere un braccialetto di pietre dure, scivolatole dal polso in un bar, dalle piccole piastrelle multicolori del pavimento. Le era caduto per terra mentre beveva il caffè, l’aveva anche guardato, ma senza vederlo, convinta di averlo ancora al polso, mentre considerava tra sé e sé che quel pavimento assomigliava proprio  al suo bracciale. Quando si è accorta di non averlo più, ha realizzato che era il braccialetto quell’oggetto che aveva visto ai suoi piedi. Più tardi, alla domanda se l’avesse trovato, l’uomo del bar rispose di no. La stessa cosa era successa in occasione di una lente a contatto, che era rimasta sospesa qualche minuto nell’acqua del lavandino che si stava lentamente svuotando. Anche in questo caso aveva notato la strana somiglianza tra quella “bolla” e la lente che le risultava ancora a posto nell’occhio. In un negozio, un’altra volta, aveva notato per terra davanti a sé una pietruzza che somigliava molto al turchese dell’anello che portava al dito, anche qui si era ben guardata dall’ accertarsi che l’anello fosse ancora al suo posto.

Sfiducia nella possibilità di vedere la realtà o presunzione di controllare tutto?

Ultimamente sospetta che anche un’altra sia la causa delle sparizioni inspiegabili di oggetti, sparizioni che le sembra si stiano intensificando, l’astuccio ha confermato la percezione, a volte sono loro che si sottraggono volontariamente. Niente di strano, ha continuato a considerarli anche dopo l’infanzia dotati di sentimenti come gli umani, le piante e gli animali, specie quelli di uso quotidiano. In fondo ai minimi termini siamo fatte della stessa materia, quanti e particelle. Pertanto è stata attenta a non imprecare contro di loro perché non si offendessero e smettessero di funzionare, ha scherzato spesso sulla rivolta delle macchine, si è affezionata a loro, tanto che fa molta fatica a disfarsene per sostituirli con altri nuovi, bisogna proprio che siano inutilizzabili. Forse non è estranea a questa tendenza l’abitudine, contratta in una famiglia dalle modeste risorse economiche, a conservare le cose il più a lungo possibile. Ha poi sperimentato che certi attrezzi funzionano bene se impugnati dalle sue mani, e meno bene  se utilizzati da altri, anche  il tocco è riconosciuto.

L’auto sottrazione degli oggetti la inquieta di più che l’abbandono da parte di amiche e amici sperimentato più  volte sperimentata nel corso della vita,  perché si accorda con un sentimento di inizio della fine che sta maturando da qualche tempo. Se nella perdita di cose o nell’interruzione di relazioni poteva sempre riconoscere una sua funzione attiva, volontaria o no, ora il fenomeno le sembra alluda alla smaterializzazione progressiva del mondo intorno a sé, indipendentemente da lei.

Non più attrice di un processo,  ma spettatrice impotente di una dissoluzione progressiva della quale lei costituisce il punto di arrivo.

 

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Lettura critica di Franco Romanò

 

Sfocature, di Adriana Perrotta Rabissi, è una sequenza di rapide narrazioni, di cui alcune già  pubblicate sulla rivista online a.VERARE. Il racconto breve e brevissimo gode di una tradizione, pur essendo un genere giovane e questa raccolta s’inserisce in esso con una spiccata originalità. Il titolo evoca immagini di rarefazione e ci immette in un universo di incertezze e inquietudini; anche i titoli dei singoli racconti, confermano questo imprinting iniziale con altrettanta coerenza. Alcuni sono una variazione sul tema (Distorsioni e Amnesia per esempio), altri decisamente spiazzanti come Tavola imbandita thailandese e Fogli di carne, altri ancora – all’apparenza del tutto normali come Metropolitana - nascondono nelle loro pieghe situazioni paradossali e disturbanti.

La protagonista narratrice è sempre una figura femminile ma cangiante, che nei primi racconti parla in terza persona e poi in prima, per concludere di nuovo in terza. Più si legge, più si forma nella mente del lettore la convinzione che si tratti della medesima donna, dall’io disseminato in forme molteplici, soggette anche a una temporalità multipla. Sono figure che mutano e sfocano, ritornano e di nuovo si nascondono, fino al racconto finale che sembra mettere una sorta di sigillo alla sequenza, ma aprendola al tempo stesso a nuove inquietudini e specialmente a interrogativi perturbanti. Un’identità fluttuante dunque, in bilico fra ricordo onirico, veglia e realtà. Esplicitamente onirico è il primo dei racconti, ma le cose si complicano in Tavola imbandita thailandese, uno dei più complessi ed enigmatici. In esso vi è una coesistenza fra temporalità diverse e anche spazialità differenti, che richiamano il concetto scientifico di universi paralleli; ma si sbaglierebbe se si vedesse in questo uno scivolamento verso la fantascienza, perché oggetti e situazioni fanno parte di una quotidianità che è di chiunque, ma nella quale, il gioco della mente, del sogno a occhi aperti o della memoria involontaria della protagonista, mescolano continuamente le carte.

Gli snodi più inquietanti e persino terrificanti, ma con punte di grottesco, si trovano in La bambina, dove confluiscono intorno al nucleo che si richiama alla fiaba di Cappuccetto rosso, tutta una serie di elementi disparati fino al finale.  Alcuni di questi elementi li ritroviamo in La maschera, dove il nesso fascinazione-dipendenza-violenza viene scandagliato in un modo straniante e lontano da schemi precostituiti e più comuni. Infine Dissolvenze, di nuovo scritto in terza persona, che chiude la sequenza aprendosi però a uno scenario che attende altre prove d’autrice. In quest’ultimo racconto la protagonista perde oggetti, non li riconosce, non è chiaro se li dimentichi o altro e in un climax assai efficace, si scivola dal piano della realtà a quello di una visione che può essere intesa in termini apocalittici o meno: sono gli oggetti a sottrarsi, a scomparire, a ritrarsi perché anch’essi possiedono qualcosa di animistico. Poco prima di raggiungere questo punto tuttavia, c’è un passaggio chiave nel quale la narratrice si domanda e forse si rivolge non solo a se stessa ma anche a chi legge: Sfiducia nella possibilità di vedere la realtà o presunzione di controllare tutto?

Il linguaggio e lo sguardo.

All’inizio, per definire questi racconti, ho usato la parola rapidità e solo in seconda battuta il termine brevità ed è una scelta consapevole perché la cifra stilistica che li contraddistingue maggiormente è la velocità di scrittura, il procedere a volte per allitterazioni e accumuli rapidissimi, a volte veri e propri lampi, che mutano bruscamente scenario e situazione, come se la protagonista si trovasse sempre in uno stato di potenziale allarme; oppure seguisse i suoi percorsi mentali mentre stanno accadendo altre cose. Ecco alcuni esempi:

Desidera con forza essere apprezzata, un po’ temuta anche, a volte si chiede quanto influisca sull’ammirazione che ricerca con meticolosità, l’aspetto fisico, o l’intelligenza esibita senza arroganza, la cortesia dimostrata nelle relazioni anche occasionali, la competenza nel suo lavoro.

Non sa se preferisce gli uomini o le donne.

Caffè silenzioso, cerali, yogurt …

E’ in piedi su una roccia protesa nel mare, le onde si fanno più agitate a vista d’occhio, questa volta decide di scendere nell’acqua…

Nella prima citazione è il brusco cambio di registro che avviene con l’ultima frase a risultare straniante, per la relazione ellittica con ciò che precede e che crea una sospensione, un vuoto, una zona sfocata fra i due momenti. Nella seconda, la sequenza richiama quelle colazioni rapide prima del lavoro, ma potrebbe essere anche un quadro di Hopper, dal momento che caffè silenzioso, implica sullo sfondo l’immagine di una figura femminile che non vediamo, ma di cui percepiamo l’esistenza. Nella terza, l’incedere ansioso allude a un potenziale pericolo che forse non esiste, ma che il lettore percepisce come possibile.

Si potrebbero citare altri passaggi ma lascio a chi legge il piacere di scoprirli da solo, perché questi mi sembrano già sufficienti per delineare un primo tentativo di sintesi. Ellissi e rapidità della scrittura, periodizzazione secca e stringata – nella quale si sente a volte l’eco di un’autrice molto amata da Adriana Perrotta e cioè Agotha Kristoff – repentini cambi di scenario, creano intorno a queste concrezioni di senso un vuoto, oppure delle sfocature, delle distorsioni. Tali concrezioni, tuttavia, sono a loro volta una mescolanza di elementi presi dalla realtà, dal sogno, dal libero flusso dei pensieri. Atolli di un universo discontinuo, impossibili da collegare l’uno all’altro, prefigurano diverse possibilità, che nel finale dell’ultimo racconto vengono nominate e al tempo stesso rinviate.