Cameriere, casalinghe e fotoromanzi Stampa
Venerdì 26 Gennaio 2018 16:33

di Franco Romanò



Lo scritto di Adriano Voltolin è un invito a fare i conti di nuovo con il sentire comune e la cultura di massa e ha stimolato in me molti ricordi assopiti che hanno a che fare non solo con il cinema.

Subito dopo la caduta del muro di Berlino, quando iniziò anche nel PCI l'operazione trasparenza che raggiunse il suo culmine con Occhetto, si seppe che nel partito c'erano delle cosiddette coperte, cioè iscritti che per il ruolo che svolgevano era bene tenere riservate. Il pensiero in questi casi corre naturalmente a uomini inseriti nell'apparato dello stato per cui la sorpresa fu grande quando si seppe che fra le tessere coperte c'erano quelle di Aldo Biscardi (proprio lui il decano dei giornalisti sportivi con il suo italiano fantasmagorico, recentemente scomparso) e un ex direttore della rivista Grand Hotel. Naturalmente fu Biscardi ad attirare su di sé le attenzioni e tutte le ironie del caso: si disse che erano tessere coperte per la vergogna di farlo sapere ecc. ecc. A ben vedere però la vera notizia è l'altra e cioè che ci fosse un direttore di Grand Hotel, l'antesignano di tutti i fotoromanzi e delle riviste più o meno dedicate ad amori improbabili; scampoli di quella cultura di massa generalmente catalogata con un certo disprezzo come stampa d’evasione, in particolare dagli intellettuali di sinistra, ma che merita invece maggiore attenzione.

Questo l’episodio relativamente recente, ma esso ha alle spalle una lunga storia e cioè l’origine del fotoromanzo come genere. Esso nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto, ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione:  Il fotoromanzo 174 pag., Euro 12.00 - Edizioni il Mulino (L'identità italiana n.22) ISBN.
Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L'intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l'uscita - nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi.
Per quello che riguarda questo mio intervento, ciò che maggiormente mi interessa mettere in evidenza, è l’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche di riflesso della Dc, in parte, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni che furono immediate.

La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.


Seconda fase. Cosa accadde nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda e accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grade panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie.
Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto.

 



La terza fase riguarda il cinema e dunque il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera.

La prima domanda che mi sono posto è come mai i vincenti Zavattini and company sul piano editoriale, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti?

A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro.

La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente intrisa di cultura umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante le avanguardie sovietiche, sia nel cinema sia nella grafica avessero aperto le porte del 900 fra le prime e proprio nella Russia del primo decennio e poi nel decennio seguito la Rivoluzione Bolscevica, lo stalinismo aveva poi spazzato via tutto.

La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo.

Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista è molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tenclogiche di quegli anni, televisone compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Voltolin non lo ricorda nel suo saggio ma ne abbiamo parlato diverse volte. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrolotavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica progagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intelletuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tuttaltro che banali e di una lettaratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.

Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche  che andava prendendo la cultura di massa ed è qui che entra in scena un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.