La poesia dopo il diluvio. Molte domande, quasi nessuna risposta Stampa
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 13 Luglio 2012 00:00

di Paolo Rabissi

Analisi critica su alcuni aspetti della poesia contemporanea.

A critical analysis of some aspects of Italian contemporary poetry.

Kritische Analyse über einige Aspekte der italienischen zeitgenössischen Lyrik.

1) Molte domande

Dice Franco Romanò, parafrasando Jameson, che in fondo quello che noi nelle pagine di Overleft abbiamo indicato col termine di diluvio – riferendoci alla produzione poetica e letteraria dagli anni sessanta ad oggi - è anch'esso un'utopia che non si realizza mai del tutto. In che senso possiamo usare questa espressione così paradossale per quel fenomeno cui assistiamo ormai da più decenni e al quale siamo legati in mille modi e che, per quanto ci riguarda, consiste nella proliferazione di scritture (mi riferisco essenzialmente alla poesia) che non possiamo non definire poetiche ma che tuttavia sembrano trovare consistenza unicamente nel proprio individuale e unico percorso di talento più o meno grande?

La parola diluvio sembra rimandare a una quantità indefinibile ma nel nostro caso ciò è vero fino a un certo punto: non manca chi fa i conti, da essi risultano cifre che dovrebbero impressionarci ma, a dirla tutta, che ci siano uno o due o più milioni di persone che oggi scrivono poesia o altro non è che interessi molto, anche se dal punto di vista sociologico cose interessanti da dire ce ne sarebbero (basti qui richiamare la scolarizzazione di massa avvenuta a partire dagli anni sessanta con l'introduzione della scuola media obbligatoria per indicare una delle cause dell'avvicinamento alla cultura di fasce consistenti della popolazione).

Il nostro termine allora vuole rimandare, magari con un pizzico di ambiguità, a una percezione soggettiva di questo fenomeno nel senso che, credo in molti, di fronte ad esso ci sentiamo spesso spaesati o addirittura smarriti, come appunto può succedere sotto un diluvio quando, l'aria essendosi rabbuiata nella tempesta, non sappiamo più dove dirigerci.

Fuor di metafora: nella profluvie di libri di poesia con cui abbiamo a che fare, c'è da desiderare che il diluvio (in tutte le sue molteplici forme di manifestazione) si realizzi fino alle sue estreme conseguenze e si giunga a una situazione del tipo: da ciascuno un libro di poesia e a ciascuno quanti ne ha bisogno? O l'utopia punta direttamente a un nuovo canone, in grado di orientare e di fornire anche strumenti critici, cosa di cui, a voler raccogliere qua e là qualche voce, sembra che molti sentano la mancanza? Basterebbe qui ricordare, come fa Franco Romanò in un documento interno alla redazione, che, sotto la spinta delle riflessioni di qualche filosofo e critico, qualcuno si spinge anche ad auspicare un ritorno, o addirittura un approdo ex novo, al realismo, a un nuovo realismo o a un realismo nuovo.

Alle domande dunque che Franco Romanò si poneva nella premessa al suo articolo, intitolato appunto 'Dopo i diluvi e le derive', comincio col proporne un'altra: dal diluvio è proprio assolutamente necessario uscire? O la fase che viviamo merita ancora un'analisi più attenta prima di avventurarsi alla ricerca di formule che si pretenderebbero organiche al presente ma anche cariche di futuro? Beninteso, formule e definizioni non è che siano letali per se stesse, è quando esauriscono la loro portata di ipotesi di lavoro, utile come punto di riferimento per i lettori e per i poeti in formazione, che cominciano i problemi (non addebitabili certo alla critica più seria e impegnata), perché l'insistenza e talvolta la forzatura nelle inclusioni in questa o quella formula rischiano di 'naturalizzare' l'ipotesi, di decontestualizzarla, di eternizzarla nel sublime iperuranico, cosa peraltro pericolosa proprio per i giovani ( o i pigri) sempre alla ricerca di orientamenti stabili.
E inoltre, ancora per tentare di rispondere a un'altra delle domande di Romanò: siamo già in grado di rintracciare e riconoscere chi ha già tentato un'uscita dal diluvio?
Una premessa mi sembra indispensabile, anche se marginale al discorso:
ciò che appare in qualche modo emblematico nella produzione poetica di questi ultimi decenni è che proprio coloro che, pur dentro al diluvio, hanno acquistato una statura di grande rispetto hanno le proprie radici nell'humus culturale di prima del diluvio (e dunque sono di una certa età) e proprio costoro non solo mal sopportano l'inclusione in questa o quella formula ma rifiutano anche con decisione l'aureola di maestri.
Se maestri non ce ne sono e canoni nemmeno, da chi vanno a bottega i ‘giovani’ del diluvio? In altre parole la generazione di poeti che si è formata dentro il diluvio, grosso modo quelli nati dopo i sessanta, ha davanti a sé il destino di anonimato cui sembrano assegnarla la miriade di piccole case editrici e piccole riviste di respiro regionale (alle quali prime essa offre sonori euri per una pubblicazione che a mala pena esce dalla propria contrada e alle une e alle altre anche tanto lavoro volontario competente e gratuito) e le infinite rassegne e sfilate quasi quotidiane di cui Milano e la penisola sono pieni?
Oppure sta per dare vita a una nuova stagione creativa più libera?

 

2) Quasi nessuna risposta
La mia esperienza individuale (attuata sempre in collettivi di lavoro) mi suggerisce solo qualche riflessione, quasi nessuna risposta.

Anzitutto che i grandi poeti non nascono a frotte (per fortuna!), poi che i mezzi per riconoscere un poeta di grande interesse e statura non sono poi così lontani dalle capacità di ciascuno di noi. Ma questo ora mi interessa dire: tutti i poeti e tutte le poete, delle centinaia che ho conosciuto, dimostrano ai miei occhi di possedere abbastanza talento per scrivere una certa quantità di versi buoni in ogni loro raccolta.

All’ultima delle domande precedenti dunque credo di poter rispondere, con un pizzico di ottimismo, affermativamente, anche se ovviamente non sono in grado di dire se costoro conquisteranno una grande rappresentatività nel prossimo futuro o se loro sono solo gli antesignani di uno sviluppo che avrà nella generazione successiva la piena maturità.

Forse non c’è bisogno di dirlo ancora, ma riteniamo anzitutto che un’accettazione acritica della massificazione dei linguaggi e dei generi finisce con l’essere organica a una indistinta ‘aura’ pseudodemocratistica sotto la quale ogni formuletta non è nient’altro che una giustificazione a priori, una legittimazione di un prodotto letterario per molti aspetti industrializzato e mercificato. Riteniamo anche che, proprio perché il prodotto letterario è a rischio continuo di questa fagocitazione nell’indistinto e nel mercificato alla moda, l’autore è chiamato ad assumersi responsabilità maggiori che nel passato. Direi sia nel riesame critico dei generi che la tradizione ci ha tramandato sia nel movimento di ricerca di relazioni nuove col presente. Detto questo, in generale nella produzione attuale personalmente mi sembra di cogliere una tendenza a una comunicabilità sempre maggiore del verso. Il che tende a lasciarsi alle spalle, verrebbe da dire, i cascami del post-modernismo. Sembra in altre parole che ci si pretenda più liberi da certe gabbie. Con lo sguardo rivolto al passato dove non necessariamente, come succede all’angelo della Storia, ci sono solo rovine, con la giusta tensione verso il futuro dove non è detto che debbano esserci solo rovine di rovine.

Dopo il diluvio, per fare qualche esempio, non crediamo che possa avere ancora campo l’inchiesta sull’ostracismo da dare o meno all’io lirico della tradizione o sulla esibizione o compressione dei sentimenti: abbiamo alle spalle una tradizione letteraria che garantisce da sé, con i suoi insegnamenti più evidenti intendo, la giusta lontananza dalla pervasività del narcisismo senza finestre da una parte e del sentimentalismo dall’altra, dalle indulgenze sacrificali al bello sublime da un lato e alle fughe misticheggianti dall’altro. Ovvero diciamo che chi oggi mette mano alla scrittura e non ha assunto sotto pelle questi anticorpi forse è meglio che lasci perdere.

Dopo il diluvio non crediamo neppure che ci possa essere molto spazio per chi affronta la scrittura con l’idea di produrre anzitutto cose belle. Come se nella ricerca della bellezza ci sia mai stato davvero il senso totale dell’essere. E quando c’è stato, ad esempio nel neoclassicismo, gli autori erano animati contemporaneamente da ideali altissimi di natura sociale e politica.

Perché verosimilmente è qui il nocciolo della questione: in quello che abbiamo chiamato postmodernismo l’appiattimento delle scritture (e dell’arte in generale) nella serialità e nel ‘discorso’ su di essa o nel gesto estetico sempre più ricercato, è sicuramente conseguenza delle caratteristiche produttive del fordismo e della cultura e mentalità che si è portato dietro (tanto per dire: l’indistinzione angelica delle classi sociali, dei generi, delle etnie, degli orientamenti sessuali), ma è anche a sua volta causa della rinuncia a leggere con consapevolezza critica le fonti dei conflitti di cui siamo portatori nelle relazioni umane. Leopardi ci invitava a raccogliere, in nome di una socialità più franca e generosa, la sfida contro l’indifferenza della Natura: invece di farci guerra tra noi invita a unire le forze per rendere la vita umana, che a differenza della 'natura naturans' è mortale, meno precaria, meno esposta all’insicurezza e all’indigenza, più libera nelle nostre capacità creative e tecnologiche per addolcirla dall’amaro della sua brevità. Ai posteri Leopardi sembrerebbe aver lasciato il compito decisivo di nominare e esplorare ogni genere di conflittualità degli umani dentro una cornice antropologica laica, al di là del conflitto tra bene e male.

Ma sul fronte della ricerca del bello come valore poetico, come dicevo sopra, forse è opportuno aggiungere a conclusione qualche ulteriore osservazione. Non foss’altro perché i decenni trascorsi sono lì a documentarci l’irrilevanza del lavoro poetico che abbia assegnato ai significanti importanza maggiore che ai significati, vuoi per una scelta consapevole di rinuncia al senso, a testimonianza, in qualche modo complice, della sua scomparsa dal presente, vuoi per un discutibile primato della libertà di inseguire estro e fantasia. Non soltanto cioè nelle sue espressioni dichiarate di non senso reso suggestivo dalle sonorità ma anche nelle flessioni da stream of consciousness indubbiamente altrettanto suggestive. Non è difficile reperire saggi di poesia di questo tipo anche in tanta poesia attuale.
Siccome continuiamo a pensare che ogni poeta abbia diritto di aspirare all’eternità, crediamo anche che chi si attarda su queste piste la strada l’abbia già persa e tuttavia pensiamo anche che massimo rispetto sia dovuto alla creatività di chiunque. Ma su questo ci sembra di dover essere chiari, la nostra simpatia va a quelle che Adriana Perrotta, nel suo saggio in questo stesso numero di OverLeft, chiama 'scritture antipatiche'.

La difesa ad oltranza di queste posizioni fa tutt’uno poi con la difesa della libertà assoluta di cui dovrebbe godere un autore. Ma è un discorso che nella concretezza dei corpi e delle persone non regge e non ci commuove per nulla. Propriamente liberi dentro questa persecuzione sanguinosa dei deboli, in questa devastazione sistematica del pianeta che si chiama neoliberismo con la sua presunta globalizzazione (che libera merci e capitali finanziari e incatena alla miseria i poveri) non siamo. Inoltre la libertà massima starebbe nella libera associazione di pensieri e emozioni che le parole in libertà procurano: devo confessare che non sono immune da quel piacere, però mi residua suggestioni e sfumature di suggestioni che si dissolvono velocemente, diletto dunque ( e mi si passi il termine antico), entertainement, piuttosto simile in ultima analisi a quello di cui c’è grande abbondanza intorno a noi, infatti c’è un intero universo industriale che è addetto a procurarcene, basta che non si metta in discussione la sua unicità e naturalità. Non ci vuol molto a dire il vero a rendersi conto che la nostra tradizione ci indica anche altri percorsi. Ci dice che il diletto in sé è mezzo e non fine. Ci dice che ‘quel’ diletto significa qualcosa ma non un gran che e che quanto ci proviene dai significati è più duraturo (con buona pace di qualche amico poeta che ritiene il contrario!). Per usare le parole di un anziano poeta milanese vivente il bello che sta nei significanti sta a quello dei significati come il manicaretto dello chef di grido sta a un piatto sostanzioso servito a dovere. E ci sembra di non dover rispondere a chi pensa che questa posizione bandisce dalla poesia sogno e irrazionalità.

E chiudo con una nota sul mistero. Montale, recensendo una poesia di un giovane, non tanti decenni fa, si chiede: ma in questa poesia dov’è il mistero? Ecco: in certa poesia, invece, c’è spesso un eccesso di misteriosità, come se l’evidente mistero della vita e della morte con il quale abbiamo a che fare tutti i giorni e in ogni momento della vita non bastasse a emozionarci e a farci riflettere. In quel tipo di poesia insomma si pretende che la libera associazione di parole, incatenata con figure a incastro, sia eco di profondissimi misteri e insondabili, accessibili magari a pochi eletti.

Il discorso è appena avviato, occorrerà riflettere appunto sui temi, sui generi poetici.