L’economia informale nel sud del mondo fra dilemmi interpretativi e di azione Stampa
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Martedì 11 Maggio 2010 00:00

di Diego Coletto

Da almeno quarant’anni l’economia informale ha assunto la forma di un fiume carsico nel dibattito pubblico, nei paesi del nord come in quelli del sud del mondo. Ad intervalli irregolari essa è emersa dall’ombra, assumendo di volta in volta denominazioni, caratteristiche e interpretazioni differenti. Economia informale, sommersa, illegale, non contabilizzata, non ufficiale, parallela, senza mercato, settore informale, informalità: sono solo alcuni dei termini più noti utilizzati per indicare un insieme eterogeneo di processi di produzione e di scambio di beni e di servizi.

 

1. Introduzione

Da almeno quarant’anni l’economia informale ha assunto la forma di un fiume carsico nel dibattito pubblico, nei paesi del nord come in quelli del sud del mondo. Ad intervalli irregolari essa è emersa dall’ombra, assumendo di volta in volta denominazioni, caratteristiche e interpretazioni differenti. Economia informale, sommersa, illegale, non contabilizzata, non ufficiale, parallela, senza mercato, settore informale, informalità: sono solo alcuni dei termini più noti utilizzati per indicare un insieme eterogeneo di processi di produzione e di scambio di beni e di servizi che si sottraggono a uno o più elementi che caratterizzano l’economia formale o regolare, quali la regolazione del diritto commerciale, fiscale, del lavoro ed, a volte, la regolazione del mercato e l’orientamento al profitto.

 

 

Negli anni più recenti, il fiume carsico dell’economia informale sembra aver riguadagnato la luce del sole. Leggendo quotidiani e siti internet di testate giornalistiche nazionali ed internazionali, è facile notare quanto il tema dell’informalità sia oggi oggetto di una crescente attenzione. Da più parti essa è indicata come uno dei fattori cruciali per contrastare i crescenti effetti negativi della crisi economica. È però interessante notare come questa attribuzione d’importanza si fondi spesso su argomentazioni diametralmente opposte. Da una parte, un numero sempre più elevato di paesi, alla ricerca di risorse da impiegare per superare la crisi economica, sembrano porre maggiore enfasi rispetto al passato alla lotta all’evasione fiscale. Dall’altra parte, centri di ricerca e organi d’informazione ci raccontano come, in contesti colpiti da alti tassi di disoccupazione, l’economia informale sia divenuta un ambito in cui lavoratori e lavoratrici espulsi dal circuito formale dell’economia riescono a provvedere alla propria sopravvivenza. Si tratta quindi di rappresentazioni e valutazioni dell’economia informale molto differenti, che non possono non far sorgere alcune domande: di cosa si sta trattando quando si parla di economia informale? Quale valore attribuire alle sue manifestazioni empiriche?

Il percorso per definire l’economia informale come concetto è stato, se possibile, ancora più discontinuo della presenza dell’informalità nel dibattito pubblico. Ad oggi non si può dire che studiosi ed esperti abbiano trovato una definizione di economia informale dalla valenza universale; alcuni di essi, anzi, hanno iniziato a dubitare del fatto che l’informalità possa essere considerata come concetto e, di conseguenza, essere in grado di definire ciò di cui si sta trattando[1]. Le difficoltà connesse alla concettualizzazione dell’economia informale si sommano a quelle legate alla sua interpretazione: fin dagli anni sessanta del secolo scorso – periodo in cui, per la prima volta, è stato utilizzato tale termine – l’informalità è apparsa come un fenomeno sociale ed economico di non semplice interpretazione, soprattutto quando si è provato ad affrontarlo utilizzando strumenti analitici propri di un’unica disciplina. I dilemmi teorici, interpretativi e di azione legati al tema dell’economia informale sembrano quindi ancora lontani dall’essere risolti. Allo stesso tempo, però, non si può dire che dagli anni settanta ad oggi non siano stati fatti dei passi in avanti.

Nelle pagine seguenti cercherò di evidenziare alcuni dei principali passi fatti nella direzione di una migliore comprensione e interpretazione dell’informalità. Mi concentrerò soprattutto su ciò che è stato fatto nei paesi del sud del mondo e in America Latina in particolare. È infatti in questi ambiti che si sono sviluppati alcuni degli approcci teorici ed empirici che più hanno avuto successo nell’affrontare tale tema. Nell’ultima parte accennerò invece ad alcune delle sfide che l’economia informale sembra porre ancora oggi a studiosi, esperti e policy markers[2] .

2. L’economia informale nei paesi del Sud del mondo

Il termine ‘economia informale’ è stato utilizzato, per la prima volta, in due studi promossi dall’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO): il primo studio, il rapporto Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana, frutto di una ricerca condotta negli anni 1965-68 dall’antropologo inglese Keith Hart; il secondo, una ricerca empirica che coinvolse diversi esperti e ricercatori dell’ILO, condotta in Kenya nei primi anni Settanta del XX secolo (ILO, 1972). Si tratta di due studi che danno il via ad una serie di pubblicazioni sul tema. Tutto ciò avviene negli anni settanta non per caso. Si tratta infatti di un periodo in cui la grande crescita economica dei paesi industrializzati (ed, in parte, il processo di sviluppo economico di alcuni paesi industrialmente più deboli) aveva bruscamente rallentato. Da allora, il paradigma produttivo dominante,[3] su cui erano stati costruiti quegli alti tassi di crescita, si è dovuto confrontare con un contesto economico e sociale non più prevedibile, perdendo così gran parte della sua presunta efficacia universale. Un ambiente economico che, con il passare degli anni, si è caratterizzato da un aumento del fattore incertezza in molte delle sue dimensioni (dalla domanda al mercato del lavoro, nei loro aspetti qualitativi e quantitativi) e da una nuova distribuzione del rischio fra impresa, Stato e forza lavoro: in questa nuova situazione economica, l’immagine della crescita illimitata di beni, consumi e lavoro perde molto del suo potere persuasivo e la sua realizzazione non è più considerata come l’inevitabile risultato finale di un processo lineare di sviluppo economico.

Nei paesi del sud del mondo ed, in particolare, in America Latina, nel corso degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, l’attenzione era maggiormente focalizzata sull’elaborazione concettuale e sull’attuazione pratica dei modelli più conosciuti di modernizzazione e sviluppo economico. Indipendentemente dal modello discusso – il modello ‘centro-periferia’ (Prebisch, 1949), quello ‘dell’offerta illimitata di forza lavoro’ (Lewis, 1954), quello della ‘grande spinta’ (Leibenstein, 1957), il modello delle ‘fasi della crescita economica’ (Rostow, 1960), o, ancora, quello il modello dei ‘salari minimi’ (Harris e Todaro, 1970) – l’economia informale rientrava nel cosiddetto ‘settore tradizionale’, inteso come un insieme di attività, per lo più indistinte fra loro, che, con diversi modi e intensità, ostacolavano la piena realizzazione della modernizzazione. A partire dagli anni settanta, a questa visione dell'economia informale se ne sono affiancate altre, alcune totalmente configgenti fra loro, altre complementari.

Pur non seguendo un andamento lineare, fra gli anni settanta e l’inizio del nuovo secolo, si possono distinguere alcune fasi nelle quali predomina una visione dell’economia informale rispetto alle altre. La prima fase è caratterizzata da un’enfasi maggiore sulle strategie di sopravvivenza adottate dalle persone escluse (o temporaneamente escluse) dal processo di modernizzazione. La seconda fase, tralasciando le differenze da paese a paese, si può in maniera approssimativa far coincidere con il periodo compreso fra la seconda metà degli anni settanta e gli anni vicini alla fine della decade degli ottanta. Si tratta di un periodo in cui si diffondono molteplici interpretazioni dell’economia informale che si legano alle sempre più frequenti difficoltà che i processi di crescita economica stavano incontrando in molte parti dell’America Latina[4]. In generale, si può affermare che in questo periodo l’informalità da fenomeno destinato a scomparire con il pieno compiersi della modernizzazione diviene un fenomeno causato dalla modernizzazione stessa. Avviene cioè un completo ribaltamento di prospettiva. In diversi casi, inoltre, l’informalità viene interpretata evidenziando maggiormente gli aspetti positivi ad essa legati. In particolare, in certi particolari contesti, essa è indicata come un ambito che contiene gli elementi necessari per contrastare problemi legati alle difficoltà del processo di modernizzazione – in primis la disoccupazione (un’interpretazione che, per certi aspetti, sembra quanto mai attuale).

Gran parte degli anni novanta rappresentano, invece, una sorta di periodo di pausa per il dibattito teorico ed empirico sull’economia informale. In quegli anni, infatti, il tema, seppur non abbandonato, perde parte della propria visibilità, essendo frequentemente incluso in dibattiti più ampi, riguardanti temi quali la povertà, le disuguaglianze ed i diritti sociali. Tale pausa anticipa la terza fase che, a grandi linee, ha inizio con la fine del secolo scorso e continua nei primi anni del nuovo secolo. Si tratta di una fase che pare caratterizzarsi da un rinnovato interesse verso l’economia informale e le sue relazioni con i processi di globalizzazione che stanno modificando la geografia economica, sociale e politica del mondo.

Soprattutto nel corso delle prime due fasi, la gran parte dei tentativi di definire le principali caratteristiche dell’economia informale e di spiegare i suoi rapporti con la parte formale o regolare dell’economia rientrano in tre grandi scuole di pensiero che, con successi alterni, hanno orientato gli studi sull’informalità. Si tratta della cosiddetta ‘scuola dualista’ – che ha raggiunto il maggior grado di popolarità alla fine degli anni sessanta e per gran parte degli anni settanta – di quella ‘strutturalista’ e dell’approccio definito ‘legalista’, che hanno proposto interpretazioni e spiegazioni dell’economia informale utilizzate, in maniera diffusa, soprattutto alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta, ma anche negli anni più recenti (Chen, 2006).

Secondo la ‘scuola dualista’, l’economia informale poteva essere considerata come un segmento dell’economia sostanzialmente separato dalla parte formale o regolare, composto per lo più da attività in grado di fornire un sostentamento, seppur minimo, a persone poste ai margini del circuito ufficiale dell’economia e della società. I primi studi sull’economia informale propongono ricostruzioni dei cicli di vita e delle strategie di sopravvivenza di particolari gruppi sociali, sottolineando gli aspetti dinamici (e la creatività) propri degli uomini e delle donne che sopravvivono nell’informalità. Si trattava di studi empirici che frequentemente descrivevano transazioni economiche regolate non dal mercato, ma dalla reciprocità (Polanyi, 1957a; 1977) e che avvenivano in situazioni di totale esclusione dai processi di sviluppo economico. Questi elementi empirici hanno favorito lo ‘sconfinamento’ in discipline non economiche per cercare d’interpretare l’informalità. Ma tale ‘sconfinamento’, invece di promuovere un dialogo maggiore fra discipline vicine, ha paradossalmente accentuato la divisione fra le stesse. La lettura sociologica dell’economia informale è stata, ad esempio, il più delle volte vista come alternativa alla lettura economica. Soprattutto nei paesi a industrializzazione debole, il fenomeno più rilevante (lo sviluppo) ha così continuato ad essere di pertinenza della teoria economica tradizionale, che cercava di spiegarlo attraverso l’utilizzo di un modello economico ‘puro’, mentre ciò che rimaneva ‘non spiegato’ (nel nostro caso, le relazioni economiche informali) costituiva di fatto una sfera a parte, che poteva, al massimo, attirare la curiosità dei sociologi.

Nei primi anni settanta, è soprattutto l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) a promuovere indagini sull’economia informale nel sud del mondo. In particolare, il suo famoso Kenya Report[5] (ILO, 1972) ha introdotto, per la prima volta, alcuni criteri per definire il cosiddetto ‘settore informale’. Quest’ultimo era considerato come un ambito formato da unità produttive che si caratterizzavano per “facilità d’entrata; affidamento a risorse indigene; proprietà familiare delle imprese; operazioni su scala ridotta; tecnologia adattata e ad alta intensità di lavoro; formazione acquisita al di fuori del sistema educativo formale; mercati non regolati e competitivi” (ILO, 1972, p. 6). Il rapporto metteva inoltre in luce le capacità di ‘assorbire’ e creare occupazione da parte del settore informale, evidenziando anche le relazioni esistenti fra le unità produttive informali e le poche imprese industriali e manifatturiere che, seppur con molte difficoltà ed inefficienze, stavano sviluppando le proprie attività in Kenya. Con questo studio, le attività informali cessano quindi di essere considerate solo degli arcaismi legati ad una società di tipo tradizionale e destinati ad essere inevitabilmente superati. Al di là dei limiti riconosciuti alla definizione formulata nel Kenya Report, l’elaborazione concettuale inclusa in questo studio e alcune delle ipotesi interpretative espresse circa il rapporto fra parte informale e parte formale dell’economia rimangono, ancora oggi, strumenti efficaci ed attuali per cercare di comprendere il ruolo dell’economia informale nei processi di sviluppo economico.

Più in generale, comunque, i fattori d’innovazione che sono emersi da alcune delle ‘missioni per l'occupazione’ che componevano il World Employment Programme (WEP) – di cui il Kenya Report ne è un prodotto - sono stati però accompagnati da una serie di criticità, che hanno contribuito a mettere in discussione la validità dell’intero programma. Innanzitutto, nella pratica, la maggioranza delle missioni del WEP si sono concentrate sulla disoccupazione urbana e quindi sul ‘settore informale urbano’, trascurando altri ambiti, quali le attività rurali. Inoltre, anche se l’approccio di analisi e diagnosi si proponeva come multi-disciplinare, in realtà esso ha spesso coinciso con un’impostazione prettamente economica, fornendo, di conseguenza, interpretazioni e rimedi parziali. L’analisi ha inoltre contribuito a rinforzare alcune visioni dicotomiche dell’economia informale, che sia lo studio di Hart, sia il Kenya Report si erano proposti di rendere più complesse e dall’applicazione meno scontata. Come ha notato Bangasser (2000, p. 11), uno dei limiti maggiori del programma di ricerca WEP è rappresentato dal fatto che, per molti aspetti, al di là dei propositi iniziali, è spesso prevalsa una visione stereotipata del cosiddetto settore informale: ad esempio, molte delle analisi realizzate hanno di fatto contribuito a rafforzare la convinzione che i ‘good jobs’ facessero parte per definizione esclusivamente alla parte formale dell’economia; di conseguenza, chi lavorava nell’economia informale lo faceva per mancanza di alternative e non poteva che essere occupato in ‘bad jobs’.

Come accennato più sopra, la seconda fase rappresenta il periodo in cui si sono sviluppate pienamente le due altre principali visioni dell’economia informale, quella ‘legalista’ e quella ‘strutturalista’.

L'economista Hernando de Soto può essere considerato il padre dell’approccio legalista. Nella sua opera El otro sendero. La revolucion informal, de Soto sviluppa la tesi che l’economia informale altro non è che la risposta del popolo al peso eccessivo dello Stato nell’economia (il libro è stato pubblicato nel 1986. La prima edizione in lingua inglese è invece del 1989). De Soto, osservando molte delle attività informali che invadevano i centri urbani sudamericani, ha mostrato una realtà in cui i poveri presenti in quelle città creavano spontaneamente, nelle strade e nelle piazze, liberi mercati di origine popolare ed al di fuori della legge. L’indagine empirica condotta dal gruppo di ricercatori, guidato dell’economista peruviano, ha comparato i costi della legalità un contesto urbano nord americano (Tampa, in Florida) ed in uno sud americano (Lima, in Perù). Il confronto ha evidenziato una netta ‘discriminazione legale’ a favore della popolazione che viveva nel contesto industrialmente più avanzato: a Tampa, infatti, erano notevolmente inferiori le risorse, in termini economici e di tempo, necessarie per avviare una qualsiasi attività imprenditoriale. Da queste prove empiriche il gruppo di de Soto dedusse che l’origine dell’informalità non era da ricercarsi in determinate caratteristiche culturali, né religiose o etniche; ma la sua nascita e crescita derivavano invece dall’inefficienza della regolamentazione dell’economia formale nel sud del mondo.

Per l’economista peruviano, nei paesi del sud del mondo mancava (e manca ancora oggi) un prerequisito essenziale per formare mercati autoregolati, vale a dire dei diritti di proprietà ben definiti e fatti valere sui beni e servizi scambiati. I diritti di proprietà, i contratti e la responsabilità extra-contrattuale hanno la funzione di ridurre l’incertezza per coloro i quali desiderano investire il loro lavoro, o i loro capitali, nello sviluppo delle risorse esistenti; ma tale incertezza risulta essere ancora molto elevata nei paesi del sud del mondo, scoraggiando enormemente gli investimenti (De Soto, 2001). Nella visione proposta da de Soto, l’individuo che agisce nell’economia informale - e che sembra essere sempre inteso esclusivamente come un imprenditore di sé stesso – realizza un’analisi costi-benefici per capire in quale parte dell’economia conviene operare. L’azione dell’individuo è quindi spinta essenzialmente dall’attesa di futuri vantaggi. Secondo tale approccio, l’economia informale diviene quindi un’opzione di uscita (Hirschman, 1970), che i soggetti scelgono seguendo una razionalità di tipo economico.

Se, da un lato, l’analisi proposta dall’economista peruviano ha il merito di promuovere studi empirici che misurano dettagliatamente i vantaggi e gli svantaggi propri di un’attività economica informale, dall’altro lato, le conclusioni a cui giunge tale approccio sono, per molti aspetti, riduttive. Esse infatti si limitano a proporre una serie di misure di matrice neo-liberale, badando solo in minima parte alle specificità dei contesti su cui s’intende intervenire. Il modello astratto di spiegazione causale proposto non prende, infatti, adeguatamente in considerazione alcuni elementi osservati nell’esperienza empirica: lo spazio dell’attore nell’interpretare i ruoli sociali; l’influenza esercitata dalle strutture sociali sulle azioni individuali o collettive; l’effetto non previsto delle azioni umane e le dimensioni espressive e normative che, molte volte, influenzano gli esiti delle interazioni.

In un inefficiente sistema di regolazioni formali, l’economia informale, intesa à la de Soto, sembra inoltre divenire una sorta di apologia della flessibilità e la sua capacità di salvaguardare l’occupazione assume un valore sociale determinante. Tale prospettiva teorica si fa dunque portatrice di un chiaro messaggio politico, che sfida apertamente l’idea che il rapporto di lavoro, giuridicamente regolato e socialmente protetto, possa continuare ad essere considerato il punto di arrivo in cui si raggiunge la piena integrazione economica e sociale e quindi il principale meccanismo di articolazione della riproduzione sociale.

Da un diverso punto di vista, anche la ‘scuola strutturalista’ ha messo in risalto alcuni degli aspetti dell’economia informale già evidenziati da de Soto – quali, ad esempio, la flessibilità ed il basso costo del lavoro. Attraverso questa visione dell’economia informale, l’attenzione si è spostata in maniera decisa anche sui paesi industrialmente più avanzati, impegnati, nei primi anni ottanta, in importanti processi di cambiamento del tessuto produttivo. È il periodo in cui hanno iniziato ad emergere con maggiore forza modelli produttivi, quali la ‘specializzazione flessibile’ (Piore, Sabel, 1984) o il ‘lean manufacturing system’ (Dore, 1990; Berger e Dore, 1998; Castells, 2000), che si sono posti come un’efficace alternativa al modello fondato sulla produzione di massa e sull’impresa verticalmente integrata.

In particolare, l’attenzione si è soffermata sullo sviluppo generato in regioni a economia diffusa, in cui prevalevano l’impresa di piccole dimensioni, processi di decentralizzazione e “il libero mercato dei prodotti e del lavoro si combinava, in maniera virtuosa, con processi di produzione e consumo profondamente innestati in relazioni familiari e comunitarie e basati su forme organizzative poco ingombranti” (Bagnasco, 1986, p. 19). In questi ambiti, il sistema produttivo prevalente risultava essere differenziato e specializzato e con esso potevano interagire differenti forme di economia informale. I processi di ‘informalizzazione’ rispondevano così a diverse necessità: da parte delle imprese, l’informalità rispondeva ad esigenze di maggiore flessibilità della prestazione e dell’occupazione, che potevano essere soddisfatte anche attraverso l’evasione di norme di diversa natura, quali il diritto commerciale, quello d’impresa e del lavoro o norme che si riferivano al sistema di relazioni industriali; da parte delle lavoratrici e dei lavoratori, l’economia informale era in grado di fornire valide forme d’integrazione del reddito[6].

Molteplici prove empiriche hanno dunque messo in evidenza quanto l’economia informale non potesse più essere considerata un fenomeno esclusivamente riferibile ai paesi del Sud del mondo. Questa trasversalità è stata uno degli aspetti propri dell’economia informale su cui hanno insistito maggiormente gli studiosi che si rifacevano all’orientamento strutturalista: l’informalità, secondo questo approccio, si stava manifestando in tutto il mondo e questo suo svelarsi era frequentemente interpretato come sintomo del processo mondiale di internazionalizzazione dell’economia e di progressiva perdita delle tutele del lavoro (Calandra, 2000). L’informalità diventa così una caratteristica permanente, sebbene subordinata, delle nuove forme assunte dal capitalismo (Portes, Castells e Benton, 1989).

Tale approccio all’economia informale, seppur con modalità e sfumature differenti, si è diffuso anche nei paesi del sud del mondo. In America Latina, alle tesi d’impronta neo-liberista si sono contrapposte tesi sostenute da studiosi di orientamento neo-marxista. Come ho già accennato facendo riferimento all’opera di Hernando de Soto, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, gli studiosi di entrambe le correnti di pensiero si sono dovuti confrontare con la resistenza e la crescita di attività economiche informali, spesso volte alla sussistenza delle persone che le svolgevano. Anche in questi contesti, sono stati realizzati diversi studi di caso su specifici settori produttivi (quali, ad esempio, il settore delle calzature e quello tessile), che hanno messo in evidenza relazioni molteplici e dai confini incerti fra parte informale e parte formale dell’economia (Peattie, 1981; Lomnitz, 1978).

L’economia informale comprendeva forme economiche eterogenee, che andavano da pratiche di sussistenza, a forme di commercio e produzione di piccola scala, a forme di sub-appalto che coinvolgevano imprese semi-clandestine e lavoratori autonomi. In particolare, alcuni studiosi di orientamento neo-marxista hanno focalizzato le loro analisi sulle relazioni fra attività informali e imprese formali, evidenziando come anche le relazioni di lavoro che si sviluppavano nell’economia informale rimanevano comunque “subordinate e funzionali al modello di sviluppo capitalista, partecipando di fatto alla logica dell’accumulazione” (Machado da Silva 2003, p. 146). In questi casi, prevaleva dunque l’immagine di un’economia informale intesa come ‘economia iper-flessibile’, il cui punto di forza maggiore era l’alta disponibilità ad adattare l’organizzazione produttiva, le condizioni di lavoro ed il suo costo alle richieste del mercato.

Altri studiosi, appartenenti sempre alla ‘scuola strutturalista’, hanno invece concentrato l’attenzione su specifiche attività, quali quelle volte alla sussistenza, evidenziando la capacità di arrangiarsi delle persone che svolgevano tali attività e l’importanza dei rapporti di reciprocità per garantire il buon esito delle transazioni economiche. In questo caso, prevale quindi un’altra interpretazione dell’economia informale: essa è essenzialmente vista come ‘alternativa’, apparendo più come una manifestazione di contro-cultura e di rifiuto dello sviluppo economico imposto fino ad allora (Lautier, 2004, p. 29). Fra i maggiori esponenti di questa corrente si ritrovano Alain Caillé e, seppur con sfumature diverse, Serge Latouche. L’idea di ricercare forme alternative di economia (e di società) nell’ambito dell’informalità nasce dal dibattito sulla questione se considerare o meno l’economia informale un segmento sfruttato dalla (o, più semplicemente, funzionale alla) economia di mercato. In tale dibattito assumono un peso rilevante le argomentazioni sostenute da Serge Latouche (1993), creatore dell’immagine di successo dei ‘naufraghi dello sviluppo’ e fra i principali assertori del fatto che l’economia informale possa rappresentare un modello di economia alternativo a quello capitalista.

Secondo il sociologo francese, “l’informalità obbedisce ad una logica di massimizzazione dei benefici sociali in termini di potere, di prestigio o d’influenza all’interno del gruppo di riferimento o nel gioco dei gruppi tra di loro” (Latouche, 1993, p. 111). In questo caso, l’informalità, pur sembrando nuovamente interpretata come un fenomeno caratterizzato da aspetti propri di una società tradizionale, diviene un modello alternativo alla modernizzazione basata sulla logica dell’accumulazione del profitto. Se l’informalità è assunta come modello alternativo all’economia di tipo capitalista, i processi di de-normazione e di de-differenziazione, che contraddistinguono tale modello alternativo, sembrano anche auspicare un’inversione di tendenza del processo di modernizzazione.

Come si può già intuire da questa breve descrizione, nel corso degli anni, le controversie fra le diverse scuole di pensiero non hanno riguardato solo gli aspetti relativi alla definizione concettuale dell’economia informale, ma anche aspetti relativi alla sua interpretazione e valutazione. Naturalmente le posizioni e le fasi appena tratteggiate devono intendersi come delle distinzioni sommarie; nella pratica, infatti, le prospettive teoriche e di ricerca empirica non si sono succedute seguendo una linearità diacronica, bensì si sono affermate spesso sovrapponendosi una con l’altra. Raramente, quindi, si è verificato un passaggio netto da una prospettiva teorica ad un’altra, ma, di volta in volta e per diversi motivi, un approccio è risultato più efficace nel fornire l’interpretazione dell’economia informale in uno specifico contesto spazio-temporale. Nonostante i limiti tipici di questo genere di classificazioni, la suddivisione proposta può comunque essere utile come ‘mappa’ per orientarsi fra la moltitudine di approcci teorici ed empirici che, negli ultimi 40-50 anni, si sono confrontati con il tema dell’economia informale.

Al di là delle diverse interpretazioni date al fenomeno dell’economia informale, è significativo rilevare come la notevole complessità propria degli aspetti empirici dell’informalità sembra aver reso sempre più necessario il ricorso a logiche di tipo induttivo, a meccanismi interpretativi multidisciplinari, evidenziando, ai molti studiosi ed esperti che si sono confrontati sul campo nell’analisi di queste realtà, l’impossibilità di utilizzare un unico paradigma interpretativo. Di fronte a relazioni economiche spesso profondamente radicate[7] nel tessuto sociale, a scambi di mercato che non paiono essere completamente differenziati rispetto ad altri meccanismi di allocazione delle risorse, è infatti risultata perlomeno deficitaria l’interpretazione fornita da un’unica disciplina. Una consapevolezza che, seppur raggiunta attraverso un percorso nient’affatto lineare, sembra essere divenuta un patrimonio comune per gli studiosi e gli esperti che si stanno confrontando con i dilemmi dell’economia informale negli anni più recenti.

3. Le sfide attuali dell’economia informale

Dalla breve riproposizione dei principali approcci teorici che, negli ultimi trent’anni del secolo scorso, hanno affrontato il tema dell’economia informale, emergono la forza e la persistenza di alcuni ‘dilemmi’ che hanno accompagnato fin dall’inizio il processo di conoscenza e comprensione dell’economia informale. Le criticità connesse all’informalità hanno principalmente riguardato sia l’elaborazione concettuale (come delimitare concettualmente l’economia informale? Quali sono i criteri che la definiscono?), sia le azioni pratiche (l’economia informale deve avere un ruolo nei processi di sviluppo economico e sociale? Se sì, quale? Per differenti attività economiche informali sono necessarie differenti misure d’intervento?)

Negli ultimi anni, il tema è tornato al centro di dibattiti relativi allo sviluppo ed alla sostenibilità economica e sociale, anche alla luce dei recenti cambiamenti economici, sociali e politici intervenuti con la globalizzazione economica. Per diversi studiosi, il recente e rinnovato interesse per l’informalità deriva essenzialmente da due rilevanti fatti empirici (Chen, 2006; Guha-Khasnobis, Kanbur e Ostrom, 2006). Il primo riguarda il mancato realizzarsi delle precedenti previsioni relative alla scomparsa, o alla significativa riduzione, dell’economia informale. Stime recenti hanno rivelato come l’economia informale non accenni affatto a diminuire in molti paesi del sud e del nord del mondo (in alcuni di essi, negli ultimi anni, si è addirittura registrata una crescita). Ad esempio, una recente indagine - promossa dall’ILO e dal World Trade Organization (WTO) e basata su dati dell’International Institute for Labour Studies (IILS) - ha evidenziato come, nella maggior parte dei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, il numero di persone impiegate in attività economiche informali non sia affatto diminuito negli ultimi anni: secondo tali stime, nei primi anni novanta, in America Latina, circa il 50% della forza lavoro era occupata nell’economia informale; nei primi anni del 2000 tale percentuale era salita al 52%. In diversi paesi asiatici, la percentuale di lavoratrici e lavoratori informali oscillava fra il 74% ed il 78% della forza lavoro sia nei primi anni novanta che all’inizio del nuovo secolo. In Africa, all’inizio della decade dei novanta si stimava che la forza lavoro impiegata nell’informalità fosse intorno al 60% della popolazione occupata, mentre nei primi anni del 2000 tale percentuale oscillava fra il 55% ed il 57% (Bacchetta, Ekkehard e Bustamante, 2009). Il secondo fatto è legato al riconoscimento dell’economia informale come ambito cruciale per la lotta alla povertà e per la promozione di percorsi di sviluppo economicamente e socialmente sostenibili.

A questi due fatti, si aggiunge un ulteriore elemento: in numerosi contesti, la crescita dei mercati a livello globale, il progressivo aumento del livello di competitività richiesto alle imprese e quindi i conseguenti rilevanti mutamenti sia nei modelli organizzativi che governano l’impresa, sia nei mercati del lavoro, hanno avviato processi di ‘informalizzazione’ delle relazioni di lavoro e delle relazioni fra imprese, la cui architettura e profondità erano difficilmente prevedibili fino a pochi anni fa.

Dal punto di vista teorico, la ricerca di criteri esclusivi per definire l’economia informale, pur facendo registrare importanti avanzamenti, non sembra ancora aver raggiunto quel livello di astrazione necessario per fornire al concetto una valenza universale. Per questa ragione, ancora oggi, la definizione di economia informale foriera di minori ambiguità continua ad essere strettamente legata a spiegazioni ‘in negativo’: infatti, l’economia informale è ancora frequentemente definita indicando ciò che essa innanzitutto non è, vale a dire attività economiche e posti di lavoro riconosciuti e protetti da sistemi di regolazione e legislativi (ILO, 2002; Portes e Haller, 2005). Questa, naturalmente, non è l’unica caratteristica che definisce l’informalità, ma è la sola che permetta di distinguere l’economia informale dalla parte formale in qualsiasi contesto[8].

La prevalenza della distinzione in negativo per definire l’informalità non deve però portare a sottovalutare gli avanzamenti nella conoscenza e comprensione di ciò che compone l’economia informale. Dagli anni settanta ad oggi, sono state realizzate numerose ricerche empiriche sul tema, evidenziando un’ampia gamma di attività e lavori che rientrano nell’economia informale. Alla ‘scoperta’ di una molteplicità di forme di economia informale si è accompagnata la ‘scoperta’ di una serie di criticità, che non possono però essere abbinate indistintamente a tutti i diversi tipi d’informalità. Così, ad esempio, le criticità che corrispondono ad attività volte essenzialmente all’auto-sussistenza (quali le attività svolte, in molte parti del mondo, da venditori ambulanti, raccoglitori di rifiuti, lustrascarpe) non sono identiche alle criticità registrate nei casi di piccoli artigiani che hanno un laboratorio informale presso la propria abitazione o nei casi di lavoratrici e lavoratori impiegati informalmente in piccole imprese informali o, ancora, alle criticità messe in luce dall’analisi di attività di micro-imprenditorialità o di lavoro autonomo, a volte coadiuvato dal lavoro di familiari del lavoratore autonomo stesso.

Nel corso degli anni, è dunque cresciuta la conoscenza e la capacità di differenziare e segmentare l’economia informale nelle sue diverse sfaccettature. Attraverso molteplici studi empirici si è andata formando una sorta di ‘mappa’ dell’informalità, ma anche delle criticità che, di volta in volta, sono emerse e dei possibili interventi per risolvere o, almeno, ridurre tali problematicità. In questo modo, si sono maggiormente differenziati anche gli ambiti di analisi del fenomeno (il funzionamento del mercato del lavoro; gli interventi di policy; le trasformazioni dei modelli organizzativi d’impresa). Il processo di differenziazione, avvenuto a diversi livelli, è stato particolarmente utile in quanto, come è già stato detto, ai diversi tipi d’informalità possono corrispondere differenti necessità e differenti problemi. La sempre maggiore evidenza e consapevolezza della porosità e dell’incertezza, che caratterizzano i confini fra parte informale e parte formale dell’economia, ha inoltre permesso di abbandonare, in maniera maggiormente decisa rispetto al passato, le visioni prettamente dicotomiche dell’economia informale, spostando l’attenzione sul cono d’ombra che, per diverso tempo, ha avvolto le interconnessioni fra informalità e la parte formale dell’economia. Le sempre più numerose prove empiriche che hanno confermato una crescente segmentazione dell’informalità hanno alimentato inoltre le forze di chi si è battuto per diffondere approcci all’economia informale maggiormente ‘ecclettici’ e potenzialmente in grado d’integrare le diverse chiavi interpretative sviluppate dalle tre principali scuole di pensiero che, negli ultimi 30-40 anni del XX secolo, hanno caratterizzato gli studi sull’informalità (dualista, strutturalista e legalista): come ha ben evidenziato Chen (2005, p. 7): “negli anni più recenti, l’aspetto fondamentale è diventato quello di chiarire di quale segmento di economia informale si sta trattando e quindi elaborare una risposta appropriata alle criticità legate allo specifico segmento individuato.” I processi di de-strutturazione e di frammentazione dell’impresa e del lavoro, che stanno caratterizzando la fase attuale della globalizzazione economica, sembrano infatti aver favorito un’ulteriore modificazione ed arricchimento della segmentazione tipica dell’economia informale. A tal proposito, è nuovamente negli ambiti urbani che emergono nuove segmentazioni. Esse sembrano comportare intrecci sempre più complessi con la parte formale dell’economia, ma anche delle rilevanti trasformazioni dei mercati del lavoro urbani, con un’alterazione delle gerarchie di genere e del ruolo della famiglia nella fascia di popolazione urbana costituita da forza lavoro a basso reddito.

Le dinamiche di de-nazionalizzazione che stanno caratterizzando l’attuale globalizzazione richiedono, quindi, quasi paradossalmente, ancor più attenzione sulle pratiche sociali ed economiche che nascono e si riproducono a livello locale e sulle possibili relazioni che legano tali pratiche a dinamiche più ampie, che vanno oltre l’ambito locale. Come ha ben evidenziato Saskia Sassen (2007), per elevare il livello di complessità dello studio della globalizzazione è dunque sempre più evidente la necessità di non focalizzarsi esclusivamente su ciò che è si manifesta esplicitamente su scala globale. In questo senso, l’economia informale sembra essere un ambito in cui, più che in altri, le dinamiche globalizzanti s’intrecciano con elementi sovra-nazionali, nazionali e locali. Per questo, per comprendere il funzionamento dei processi che definiscono le interazioni fra globale, nazionale e locale diventa necessario ‘addentrarsi’ all’interno degli ambienti sociali densi in cui tali dinamiche si strutturano, mettendo in disparte, o lasciando per lo meno in secondo piano, analisi eccessivamente ampie e strumenti esplicativi basati essenzialmente su dualismi abituali, quali tradizionale/moderno, locale/globale, ma anche formale/informale. Può essere dunque utile spostare, in maniera ancor più decisa, l’interesse della ricerca sui processi attraverso i quali le diverse forme di economia informale si interconnettono con le strutture sociali esistenti e con le politiche e le pratiche di enforcement promosse ed attuate non solo più dagli Stati-sovrani, ma anche da altri attori che agiscono a livello globale e locale.

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Note

[1] Maggiore condivisione è stata raggiunta nella distinzione fra alcune delle principali forme di economia informale: ad esempio, oggi risulta quasi scontata la distinzione fra economia informale e economia criminale, intendendo quest’ultima come la produzione, in parte o totalmente, irregolare di beni e servizi totalmente illegali.

[2] Ho approfondito il tema dell’economia informale nei paesi del sud del mondo nel libro The Informal Economy and Employment in Brazil. Latin America, Modernization and Social Changes, in uscita per Palgrave Macmillan in ottobre-novembre 2010.

[3] Ci si riferisce al modello della fabbrica tayloristica-fordista che fa della stabilità la propria forza e che ha conosciuto il suo massimo sviluppo in un ambiente economico caratterizzato dalla presenza di mercati prevedibili. Alcuni fra gli elementi distintivi di questo modello di produzione sono: processi produttivi programmabili; ingenti investimenti in macchinari; produzione di merci standardizzate (e, per certi aspetti, anche di servizi standard); mansioni e compiti parimenti ottimizzati e standardizzati; un impiego imponente di forza lavoro con qualificazione professionale medio-bassa.

[4] In quegli stessi anni, le economie dei paesi industrialmente più avanzati erano invece caratterizzate da stagnazione, inflazione e disoccupazione crescente; si tratta degli anni in cui è ufficialmente entrato in crisi il modello economico fondato sulla produzione di massa e standardizzata e sull'utilizzo di forza lavoro mediamente de-specializzata, che aveva conosciuto il massimo successo in ambienti economici caratterizzati da una domanda stabile e da mercati in espansione.

[5] Lo studio condotto dall’ILO in Kenya faceva parte del più ampio programma di studio e intervento, denominato World Employment Programme (WEP).

[6] È a partire dagli anni ottanta che il tema della flessibilità del lavoro inizia ad attirare sempre più interesse da parte di esperti, policy makers ed accademici di differenti discipline. Al di là delle criticità emerse dai tentativi di definizione, il dibattito si è concentrato soprattutto sulle valutazioni della flessibilità del lavoro e sugli effetti per imprese e lavoratori (Castel, 1995; Castells, 2000; Dore, 2005; Sennett, 1999; Supiot, 2003).

[7] Con questo termine, si ritrovano molti degli aspetti e degli effetti legati al concetto di “embeddedness” formulato da Karl Polanyi (1957).

[8] La definizione ‘in negativo’ presenta comunque diversi ed importanti limiti. Innanzitutto, essere al di fuori delle regolazioni e degli schemi legali governati da istituzioni formali non significa che non ci siano regole e norme che governano l’informalità. In secondo luogo, questo tipo di definizione, pur consentendo una distinzione fra informalità e parte formale dell’economia, nulla ci dice sulle altre caratteristiche dell’economia informale e sulla sua sempre più accentuata segmentazione. Tale definizione rischia quindi di essere eccessivamente inclusiva.