La soggettività nell'epoca dell'alienazione totale Stampa
Giovedì 06 Febbraio 2020 14:50

di Franco Romanò

The second part of a study about the intersections between patriarchy and capitalism. As for the first, this essay has been deeply discussed by the editing staff.

La seconda parte di una riflessione sugli intrecci fra patriarcato e capitalismo. Come nella prima parte il saggio è stato lungamente discusso dalla redazione

Introduzione

Riprendiamo il discorso iniziato con il saggio L’intreccio patriarcato-capitalismo libero dai marxismi, affrontando il problema della  soggettività nelle condizioni in cui si pone oggi. Soggettività e soggetto, infatti, non sono sinonimi, come non lo erano e non lo sono classe e coscienza di classe. Qualunque soggetto o più soggetti che si muovono sul terreno della lotta sociale, non possono fare della loro condizione e collocazione oggettiva (o supposta tale) nella dinamica dei rapporti sociali di produzione, il solo strumento teorico d’analisi e orientamento delle proprie scelte, dal momento che, essendo il capitalismo un sistema conflittuale e anomico per natura, non può che produrre conflitti; ma un conflitto che sia la semplice forma pavloviana reattiva rispetto a un sistema intrinsecamente conflittuale, non è di per sé una risposta politica. In altre parole, soggetti, soggettività e soggettivazione sono un processo unico in divenire.

Disincanto del mondo e femminilizzazione del lavoro

Paola Rudan, nella parte iniziale di una recensione alla raccolta di scritti di Silvia Federici a cura di Anna Curcio per Ombre corte e intitolato Reincantare il mondo fa un’affermazione che ci sembra un ottimo  punto di partenza: non ci occuperemo invece, per il momento, della riflessione critica di Curcio sull’opera di Federici in generale:

C’è un rapporto tra il weberiano «disincantamento del mondo» e la violenza contro le donne. L’intensificazione di questa violenza può essere considerata la leva di un processo di riorganizzazione del capitalismo su scala globale, la pratica che fa strada al dominio della tecnica e della razionalizzazione del lavoro che il sociologo tedesco riconosceva come cifra del capitalismo e della sua organizzazione politica nello Stato.

L’affermazione è importante per molte ragioni che, a partire dalla questione della violenza maschile sulle donne, costituiscono il nucleo centrale dell’aggressione che l’intreccio fra patriarcato e capitalismo post fordista sta portando all’ambiente, alla vita organica, ai corpi. La colonizzazione dell’immaginario e l’invasione di ogni ambito vitale non è del tutto nuova: l’operaismo da un lato, Guy Debord e Primo Moroni in Italia lo denunciarono per primi, anche sulla scorta di Foucault, Bourdieu e altri; ma da quegli anni in poi, il tentativo di colonizzazione di ogni aspetto della vita è andato avanti, ma specialmente è cambiato radicalmente lo scenario in cui si svolgevano quelle riflessioni. Gli anni ’70 erano tempi di forte critica di paradigmi precedenti, ma questi erano ancora in parte vitali; la critica, dunque, stava all’interno di uno scenario aperto ad alternative possibili sebbene fosse già in atto l’offensiva reazionaria di cui oggi vediamo tutti gli effetti. La lotta di classe dall’alto da un lato (Luciano Gallino) e la distruzione del welfare nato dal compromesso sociale fra capitale fordista e movimento operaio dall’altro, hanno creato uno scenario nuovo, in cui processi come la femminilizzazione del lavoro, la messa a valore delle femmine di tutte le specie, la robotizzazione, hanno profondamente modificato non soltanto la struttura economica, ma la soggettività individuale e collettiva. La ricostruzione forse più completa di questi processi la troviamo in un saggio dal titolo provocatorio Abbasso l’amore:

… Una delle caratteristiche più vistose dell’economia post-fordista contemporanea consiste nel modo in cui alcune delle forme tradizionali del lavoro delle donne sono giunte a caratterizzare differenti tipi di impieghi… «le condizioni che circondano il lavoro delle donne evidenziate dalle femministe oggi sono diventate condizioni generali del lavoro» (Adkins, Joniken 2008, 142).1

Il paradosso, se mai, è che il disincanto del mondo assume la maschera di una apparente amorevolezza, che si traduce tuttavia immediatamente nel suo contrario. Nei supermercati dell’Ikea, che impone a lavoratori e lavoratrici ritmi di lavoro vicini allo schiavismo, campeggia uno slogan molto accattivante e liberal: siamo aperti a ogni tipo di famiglia, ma solo per i consumatori che si possono permettere delle relazioni minimamente umane! Come affrontare un contesto come questo, assai diverso da quello segnato dalle strategia e dalle tattiche del movimento operaio novecentesco? La sfida riguarda prima di tutto la soggettività e le sue forme, ma anche il riconoscimento reciproco da parte di istanze diverse, non più fondate sulla preminenza di un soggetto rivoluzionario unico – storicamente la classe operaia - in grado di rappresentarle.

Se la mia vita non vale, producete senza di me

Si è ragionato troppo poco su questo slogan, forse il più importante degli ultimi anni. Ne rifaccio brevemente la storia avvalendomi anche di un saggio scritto proprio a ridosso degli eventi: Strike against the machine! Appunti sul presente – scritto dal collettivo Berlin Migrant Strikers. su S/connessioni precarie. Al di fuori dei vincoli del capitale Da Berlin Migrants Strikeers2

Il collettivo berlinese centra molto bene il problema e alla loro analisi vorrei aggiungere solo qualche riflessione in più sulla natura di questo sciopero politico, diverso dai precedenti storici che conosciamo, perché fondato su una felice asimmetria. Bloccando la produzione in nome di una rivendicazione politica oggetto di un dibattito parlamentare, le donne polacche misero in scacco l’intero sistema di potere. Se da un lato infatti la rivendicazione non poteva trovare alcuna soluzione tradizionale in forme - per intenderci - sindacali (aumenti salariali, diminuzione delle ore di lavoro ecc.), la lotta e la forma di lotta scelta metteva del tutto fuori gioco le organizzazioni padronali, che nulla potevano fare per fermare la protesta con gli strumenti a loro disposizione. D’altro canto il parlamento si trovava in un doppio scacco, sottoposto alle pressioni del movimento ma anche a quelle delle associazioni padronali medesime, che si trovavano a subire un danno rilevante per una situazione asimmetrica e per certi aspetti nuova e sconosciuta e nemmeno paragonabile agli scioperi politici per la democrazia o antifascisti ecc.: se mai aveva qualche affinità con gli scioperi insurrezionali proprio per la sua capacità di bloccare tutto senza una rivendicazione contrattabile. Esclusa, almeno in quella circostanza, l’uso della repressione pura e semplice, non rimaneva che la strada del ritiro del provvedimento.

Il collettivo berlinese si domanda più avanti nella sua analisi se nel pensarlo le donne polacche si rendessero conto di tutte le implicazioni della loro scelta. Un movimento spontaneo ed esteso che diventa nel giro di poco tempo contagioso e il cui slogan viene ripreso in tutto il mondo in poco tempo (sebbene non producendo gli stessi effetti ovunque), non può avere in partenza tale consapevolezza: è la riflessione su di esso che permette di averla e comunque una prima deduzione la si può trarre proprio da quella esperienza e cioè che solo lo sciopero sociale può farsi portatore di una trasversalità politica in grado di mettere in crisi un intero assetto di potere. Questo non significa squalificare altri scioperi rivendicativi più tradizionali o altro, di cui il documento berlinese indica proprio i punti più alti significativi: le lotte nel settore della logistica in Italia e negli Usa, quelle dei precari di Foodora e altre imprese del gig economy, il blocco dei portuali svedesi, cui oggi possiamo aggiungere la mobilitazione mondiale di Friday for future. La ragione della particolare importanza delle sciopero polacco è molto bene articolata nel brano riportato in nota, sempre del collettivo berlinese. 3

Quello che il Black Monday polacco mise in primo piano e offerto alla riflessione è proprio una forma diversa e nuova di soggettività, non tanto di un nuovo soggetto semplicemente. La sua importanza strategica è proprio questa, perché il rilancio di più movimenti antagonisti, in grado di confrontarsi con l’intreccio fra patriarcato e capitalismo nelle condizioni del mondo di oggi, non richiede solo la ricerca di un soggetto o di più soggetti, ma di forme nuove e diverse di soggettività. Così come era vano pretendere una consapevolezza a priori, altrettanto bisogna evitare di mettere sulla spalle delle donne polacche le soluzioni possibile su come continuare. Così come vanno evitate le constatazioni ciniche di chi non muove mai un passo e si domanda ora che ne è di quel movimento in Polonia, viste le derive di destra di quel governo, nonché l’offensiva reazionaria in atto in tutta Europa, come ha dimostrato il convegno di Verona sulla famiglia che si tenne mesi fa. Chi semina non raccoglie subito perché un pensiero strategico ha bisogno di pazienza e del lavoro di molti e di molte, non certo di scorciatoie o del cinismo della rassegnazione che si limita a constatare i passi indietro di una situazione senza comprendere che l’offensiva reazionaria è stata anche la risposta alla paura quella insorgenza di massa in  forme nuove.

Cambiamo per il momento l’oggetto di questa riflessione accostando alle citazioni di cui sopra del collettivo berlinese, due citazioni da un saggio di Robert Kurz4

In questo primo brano, ci sono infatti due parti costitutive: la prima è la pars destruens e Kurz la dice con una nettezza, che forse noi possiamo non ripetere più ogni volta nella medesima forma, ma che non dobbiamo dimenticare. Quando parla del marxismo statalista e della sua riduttiva utopia dello stato, sta criticando sia il modello sovietico leninista, sia quello socialdemocratico, perché entrambi fondati su un concetto infondo distributivo della giustizia sociale: la merce è un oggetto buono che deve essere distribuito con equità. La merce invece è un oggetto cattivo anche quando viene distribuito equamente e per questo Kurz lega immediatamente tale concetto alla necessità di superare la metafisica del lavoro andando incontro a certe istanze del pensiero anarchico, liberato a sua volta dalle astrattezze di quel pensiero; ma salvaguardando il primo Marx, un Marx - per usare una formula che abbiamo già usato - libero da marxismi del ‘900.5

Possiamo affiancare a Kurz un altro pensatore importante degli anni ’80, il filosofo francese Maximilien Rubel, il primo a introdurre la distinzione fra marxista e marxiano, indicando con il termine marxista un insieme di idee e di pratiche che si erano sostanziate e concretizzate nelle politiche delle due internazionali - la Seconda e la Terza - con le loro culture e pratiche politiche, e ideologie conseguenti. Rubel definiva marxiani quei pensatori che continuavano a rimanere radicalmente anticapitalisti ma che ritenevano, nella sconfitta ormai evidente del socialismo reale, di dover tornare a ragionare sul pensiero di Marx,  in particolare - secondo Rubel - sulla sua rivoluzionaria e dimenticata concezione dello stato (questione che abbiamo già ripreso su OL), e sull’elaborazione del concetto di estinzione, diverso dall’abolizione dello stato predicata dagli anarchici, ma volta dialogare con loro e non a separasi da loro. Il Marx che entrambe la socialdemocrazia e il bolscevismo hanno scelto è l’altro e poco importa, infondo se per gli uni la conquista del potere politico poteva avvenire per via parlamentare e per gli altri solo in modo insurrezionale: entrambi condividevano una concezione dello stato del potere politico simili. Per entrambi la precondizione per qualsiasi cambiamento era proprio la conquista del potere politico, non disponendo il proletariato e la classe operaia, dei mezzi di produzione. Bene, se mettiamo insieme Rubel e Kurz, il primo ha posto l’accento sulla necessità di rivedere radicalmente la concezione del potere e dello stato, ritornando al primo Marx, Kurz svolge un ragionamento parallelo rispetto e al sistema della merce e dell’economia ponendo, sotto traccia, ma neppure tanto, il problema di come sia possibile produrre e non solo distribuire in modo diverso. Lo afferma in modo chiaro e di semplice orizzonte nella parte finale della prima citazione dove la pars construens c’è eccome:

È necessario sostituire l’astrazione reale «lavoro», presupposta inconsciamente e modellata sulla forma-merce con una forma di riproduzione nuova, al di là del mercato e dello Stato, così da liberare il «ricambio materiale dell’uomo con la natura» (Marx) dal terrore dell’astrazione della moderna forma feticistica, superando la separazione funzionalistica delle sfere dell’esistenza sulla base di «attività autonome».6

Torniamo, alla luce delle citazione di cui sopra, allo sciopero delle donne polacche ma anche a più recenti movimenti e altri scioperi di cui si è parlato. Lo slogan Se il mio corpo non vale producete senza di me ha una duplice valenza perché la parola vale contenuta in esso non si riferisce al valore economico del corpo costretto a erogare lavoro vivo nella produzione della merce capitalistica, ma si riferisce a un altro tipo di valore: è la connessione asimmetrica a mostrare contemporaneamente l’uso dei corpi e la loro messa a valore in tutte le forme possibili, e la necessità di un valore che si esprima invece in diritti e qualità della vita. Lo stesso avviene con le lotte ambientali più radicali in ogni parte del mondo: da quelle degli indigeni dell’America latina, al concetto di Buen vivir, ai No tav e ai Tamburi combattenti di Taranto, che mettono in discussione il primato della merce capitalistica prodotta in una fabbrica della morte; una logica produttivistica sostenuta anche dai sindacati, contrapposta appunto a un diverso modello di vita e di produzione.

Riprendiamo ora il discorso su Kurz dove viene riproposto, in modo ancora più articolato tutto il discorso sulla merce e sul modi diverso di produrre 7. Dopo avere ribadito nella prima parte di quest’ultima citazione l’impossibilità di restare dentro il sistema della merce per tutte le ragioni dette dall’inizio del suo saggio, nella seconda parte della citazione Kurz articola una serie di prospettive nelle quali è poi così difficile riconoscere anche cose che si stanno già facendo? Le banche del tempo non hanno niente a che fare con le forme comunitarie di produzione dei servizi? Esperienze come quella della Rimaflow e delle fabbriche argentine rigenerate cosa sono se non un tentativo di legare insieme produzione virtuosa e servizi. La stessa idea di monete locali, che Kurz non disprezza affatto e di cui mette in guardia solo rispetto alla deriva geselliana, 9non sono un tentativo che va in questa direzione? E l’esperienza di Nuit debout in Francia o quella decennale della Comune di Notre  del landes non sono proprio modi di riorganizzare il territorio, l’economia e la socialità? La risposta dei leninisti è nota: che ve ne fate di tutto questo senza il potere politico? La risposta di altri maestri della rassegnazione si dilungherà sul fatto che però la comune di Notre dames des landes è stata sgomberata dopo nove anni: come se fosse una sconfitta e basta, dimenticando che quell’esperienza ha consentito per un tempo ragionevolmente lungo a una comunità di vivere in modo decente. Queste affermazioni conclusive, provvisorie e sotto certi aspetti anche sbrigative intendono tuttavia aprire semplicemente la terza parte e ultima parte di questa riflessione che sarà dedicata proprio a tematizzare il discorso sulla transizione in relazione al rapporto fra movimenti, nuove soggettività, geopolitica imperiale e istituzioni.

 

 

1 Per maggiore completezza, riportiamo qui di seguito anche il prosieguo del brano citato : Si consideri, per esempio, come le forme di lavoro intellettuale e manuale che un tempo erano separate in molte occupazioni industriali, ora sono spesso integrate, assieme alle professioni del cuore e dell’anima, nella produzione post-industriale. Nella misura in cui il modello flessibile, accudente, cooperativo e comunicativo della femminilità è giunto a rappresentare il lavoratore ideale, il lavoro delle donne sotto il fordismo è diventato il modello, anziché la mera appendice, per le economie capitaliste post-fordiste… Una delle conseguenze di questi sviluppi è che una porzione crescente della soggettività dei lavoratori viene inglobata e rifusa nella loro identità di lavoratori. Configurare il lavoro come il centro della nostra identità comporta una riconfigurazione del sé in rapporto al lavoro. Ciò è reso più facile dal fatto che, mimando le qualità senza limiti del lavoro di cura domestico, nell’economia contemporanea sono saltati i confini che un tempo si supponeva separassero il lavoro salariato dal tempo, dai luoghi, dalle pratiche e dalle relazioni di non-lavoro. In questo modo, il lavoro salariato e i suoi valori sono arrivati a egemonizzare più che mai il nostro tempo e la nostra energia. «In media, disponiamo soltanto di 27.350 giorni su questo pianeta», dichiara un manuale di auto-aiuto su come avere successo sul lavoro, «e 10.575 di questi sono giorni lavorativi» (Baréz-Brown 2014, 12). Dunque, abbiamo bisogno di riadattarci individualmente al fatto che «vita e lavoro sono intrinsecamente collegati. Non sono separati; sono una cosa sola» (10)… Mentre alla fine degli anni Novanta Arlie Hochschild rilevava una tendenza al rovesciamento emotivo nella nostra devozione alla famiglia e al lavoro, di modo che molti trovavano il lavoro sempre più simile alla famiglia e la famiglia al lavoro (1997), più recentemente Melissa Gregg nel suo libro Work’s Intimacy (2011) scrive della relazione sempre più intima che molti lavoratori intrattengono con il lavoro e delle la critica della produzione di mercato in quanto sistema narrazioni romantiche impiegate per caratterizzare il loro amore per esso e la loro felicità. Il saggio completo si trova in www.infoaut.org › Categorie › Segnalazioni.  Abbasso l'amore. Critica femminista e nuove ideologie del lavoro...

 

2 … Il primo elemento che ci sembra giusto valorizzare tra le lotte contemporanee è il vincente sciopero delle donne polacche contro la proposta di legge che voleva rendere illegale l’aborto; sciopero che ha, a nostro avviso, una duplice natura paradigmatica. In primo luogo ci parla dell’emergere di una soggettività subalterna che taglia trasversalmente la stratificazione di classe e la ridefinisce: le donne. Ma ci parla anche di una forma di lotta che scardina lo schema delle battaglie di genere degli ultimi trent’anni, battaglie civili fatte di grandi piazze, lobbying politico più o meno interno alle istituzioni, rivendicazioni formali di parità. Le donne polacche hanno scelto di opporsi a una legge convocando … uno sciopero politico. Abbiamo quindi di fronte una componente che incarna il conflitto più antico e radicato nelle strutture sociali esistenti, che seppur spesso considerato marginale rispetto al conflitto di classe, costituisce in realtà il nocciolo primario dell’organizzazione del lavoro e della società nel sistema capitalistico.

3 Questa soggettività non solo è direttamente l’articolazione di un rapporto materiale, ma si esprime conflittualmente, affermando la propria autonomia politica, con l’imposizione di un danno materiale al capitale. Sciopero di genere e sciopero politico quindi, intrecciati dentro la vicenda polacca, segnano un punto di avanzamento e una traiettoria da percorrere. Inoltre lo sciopero delle donne polacche ha la capacità di svelare il corpo della donna come primo terreno di ricaduta delle esigenze produttive e riproduttive del capitale. Le donne si vedono vietare il diritto all’aborto e ricevono quindi l’imperativo a una funzione riproduttiva nel suo senso più incarnato, a questa violenza si risponde con un blocco produttivo, mostrando come a partire dal corpo delle donne per poi estendersi a tutte le figure subalterne, precarie, migranti, produzione e riproduzione normano i corpi attraverso strumenti sempre più violenti e repressivi. Lo sciopero si risignifica diventando così sociale in senso pieno, lo fa innovando le pratiche del conflitto di genere e bypassando la specificità del rapporto produttivo, coinvolgendo la vita, i desideri e il corpo. La pratica femminista compie così il passo finale di consapevolezza del legame intrinseco e funzionale tra capitale a patriarcato, si lascia alle spalle l’illusione di contare democraticamente, sceglie invece di contare economicamente e di porre pressione al sistema in modo conseguente. 3

4 Il presupposto indispensabile per il superamento del sistema della merce è il superamento delle ideologie obsolete di un passato agonizzante, incluso il marxismo. Solo così sarà possibile mettere a frutto il contenuto ancora valido della teoria di Marx, rinnovando il pensiero critico ed emancipatore. La situazione si può sintetizzare così: il marxismo statalista (con la sua riduttiva utopia dello Stato) deve arricchirsi con la critica radicale anarchica dello Stato e lo stesso dovrà fare l’anarchismo (con la sua utopia decurtata del denaro), fautore dell’individualismo plasmato sulla forma-merce, con la critica radicale di Marx al feticismo della forma-merce. Naturalmente non lo si potrà fare in maniera eclettica, combinando superficialmente questi sistemi teorici antagonisti nella forma intrascesa del passato. Invece un reale superamento sarà possibile solo nella misura in cui verrà superata nel contempo la moderna metafisica del lavoro, che è la base comune di entrambe queste forme della vecchia critica sociale. È necessario sostituire l’astrazione reale «lavoro»…

Tutte le citazioni di Robert Kurz si trovano nel sito L’anatra da Vaucanon e nel blackblog Francosenia, alcuni negli scritti del collettivo Juggernaut. Comunque, se si cerca nel portale Sinistra in rete i saggi di Kurz ci sono tutti, compresa l’importante intervista la rilasciata al blog Francosenia.  Qui ci limitiamo alle citazioni essenziali, perlopiù tratte dai saggi: Dalla fine del socialismo di stato alla crisi del 2009, da La storia della terza rivoluzione industriale, divisa in quattro parti e Tutto sotto controllo sulla nave che affonda.  Non si possono indicare le pagine poiché  si tratta di scritti online direttamente sul portale. A questo gruppo di saggi si possono affiancare i lavori successivi dei collettivi Exit e Krisis, fondati da Kurz stesso o nati dopo la sua morte. In particolare l’opera di Roswhita Scholl è altrettanto importante per i temi qui trattati. 

5 Il tema è stato ripreso recentemente anche in un saggio assai importante pubblicato sul portate Sinistra in rete: L'altro Marx Perché il Manifesto Comunista è obsoleto di Norbert Trenkle. Quest’ultimo fa parte del collettivo Krisis, un’associazione erede fra l’altro del lavoro di Kurz, così come il collettivo Exit. Riporto alcune affermazioni del saggio:… il paradigma dell'antagonismo di classe non offre una spiegazione adeguata di quelli che sono gli sviluppi attuali. Innanzitutto, per questo c'è una ragione fondamentale: la contrapposizione tra capitale e lavoro non era e non è affatto una contraddizione antagonistica che demolirà necessariamente il capitalismo, come è stato descritta da Marx ed Engels nel Manifesto e come da allora è stato ripetuto all'infinito. Piuttosto, è un conflitto immanente di interessi che avviene nel contesto di un quadro sociale condiviso e che si basa sulla produzione generale di merci, nel qual la ricchezza sociale assume la forma astratta del valore. La produzione di ricchezza astratta è una caratteristica del capitalismo storicamente specifica. È parte della sua più intima natura. È astratta nel senso che tutte le proprietà materiali di quelli che sono i prodotti creati, e le condizioni concrete della loro produzione, vengono sottomesse alla categoria del valore. L'unica cosa che conta è il tempo di lavoro medio nel contesto di una società, necessario alla loro riproduzione, il quale viene rappresentato dal valore dei prodotti e che, dopo vari passaggi intermedi, appare empiricamente sotto forma di denaro. Ragion per cui, il lavoro occupa una posizione centrale nella produzione della ricchezza astratta. Ma anche in questo caso, non è il contenuto materiale quello che conta. Ciò che importa è che quel lavoro (vale a dire, lavoro astratto) venga speso completamente…. Ma dal momento che entrambe le parti costituiscono il nucleo del modo capitalistico di produzione, entrambe condividono anche un interesse comune a voler preservare la produzione di ricchezza astratta, malgrado quelle che sono tutte le loro differenze. È questo il motivo per cui, generalmente, rispettano le regole del gioco dettate da questa forma di ricchezza. Per entrambe le parti, ciò significa innanzitutto che l'accumulazione del capitale deve continuare…. Questa basilare comunanza, è la ragione più profonda per cui la contrapposizione tra capitale e lavoro non è riuscita a spazzare via il capitalismo, come aveva predetto il Manifesto, ma ha invece continuato, per tutto il corso del XX secolo; a rimanere assoggettata a quelli che sono stati i nuovi modi di negoziare, e di regolare politicamente, un equilibrio tra questi interessi diversi.

6 Op. citate in precedenza, in particolare il saggio Dalla fine del socialismo di stato alla crisi del 2009.

7 … una rivoluzione sociale capace di oltrepassare il complesso mercato-Stato della forma-merce totale, ormai insostenibile, potrà avvenire solo mediante una pluralità di tentativi su livelli assolutamente diversi: in un ambito immediato nuove forme comunitarie di produzione e di autogestione dei servizi; nell’ambito dei settori centrali dell’industria un nuovo dibattito sulla pianificazione senza la direzione dello Stato (magari con l’ausilio di modelli cibernetici ed ecologici) al di là dello Stato e dell’economia nazionale. In questo senso centrale è l’idea che il livello di socializzazione e di produzione della modernità non va semplicemente liquidato, che occorre invece selezionare le sue potenze e le sue forme fenomeniche secondo criteri sensibili ed estetici. Tutto questo si pone già ben al di là del confronto con la fiacca utopia del denaro geselliana.

Non è possibile riassumere in una nota - seppure lunga - tutta la trattazione critica di Kurz in merito alle teorie di Gesell e non è neppure necessario nel contesto di questa riflessione. Per chi volesse approfondire la questione si rimanda alla fonte originale e cioè al suo lungo saggio dal titolo Economia politica dell’antisemitismo, pubblicato in Krisis e anche nel sito L’anatra di Vaucanon. Anche questo saggio si trova facilmente e anche sul portale Sinistra in rete.