Esiste l'anomalia italiana? Stampa
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Mercoledì 26 Gennaio 2011 00:00
L’interrogativo così secco e apparentemente inattuale di questo dibattito redazionale – Esiste l’anomalia italiana? – è nato in redazione riflettendo sulla Foto di Imagoeconomica congiunzione temporale di due fatti fra loro assai asimmetrici: la crisi politica in corso e l’avvicinarsi del 2011 con le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia.

Ci piace mettere ad exergo del dibattito questo pampflet del 1580 (pubblicato su Repubblica del 6 11 2010) di autore anonimo, forse di area protestante, tradotto dal latino:

Vindiciae contra Tyrannos

"Tiranno è colui che toglie a molti per dare a due o tre favoriti, impoverisce tutti per elargire a quegli insolenti, rovina il bene pubblico per costruire la sua casa [...] innalza gente volgare e sconosciuta affinché questi pezzenti, dipendendo totalmente  da lui, lo adulino e si pieghino a ogni sua passione [...] odia gli uomini dotti e saggi [...]  ritenendo che la sua sicurezza risieda nella corruzione e nella degenerazione, [istituisce] taverne, case da giochi, bordelli e giochi, come fece Ciro". 

Franco Romanò:

La questione dell’anomalia italiana è naturalmente molto antica e fu posta da Gobetti e da Gramsci all’inizio del ‘900 e cito soltanto due autori che se ne sono occupati fra i molti, anche se il peso specifico delle loro riflessioni è assai consistente rispetto ad altri.

Provo a enucleare per punti molto sintetici e necessariamente anche un po’ apodittici, quello che mi sembra essere oggi il senso comune (proprio come lo intende Gramsci)  del popolo e della cultura di sinistra, rispetto al problema dell’anomalia italiana.

Anche il pensiero laico e tradizionalmente borghese (repubblicano-massonico-liberale) ha diffuso un senso comune su tale problema, ma vorrei per il momento non occuparmene, anche se ho citato Gobetti; ne accenno brevemente alla fine quando dirò qualcosa anche rispetto al fenomeno del tutto nuovo rappresentato dalla Lega Nord, ma anche da quelle del sud.

Il senso comune del popolo della sinistra e dei suoi leader oggi mi sembra girare intorno a questi punti:

 

  1. La vergogna di essere italiani che ha due declinazioni diverse: chi si vergogna di essere rappresentato da una simile classe dirigente e chi si vergogna tour court, tanto da accarezzare propositi di volontario esilio. Questo sentimento, naturalmente, è diffuso solo in alcune frange di popolo e se ne avverte solo una eco esile leggendo fra le righe certe dichiarazioni di politici.
  2. La conseguente esterofilia che si manifesta anch’essa in due modi: la rivendicazione dalemiana del ‘paese normale’, che sottintende che l’Italia non lo è, la continua sottolineatura del differenziale che separa Berlusconi dagli altri leader occidentali (cavallo di battaglia un po’ di tutti).
  3. La quasi totale indifferenza e quindi l’incapacità di problematizzare l’anomalia italiana da parte della sinistra cosiddetta radicale, anche in passato. Anche in questo caso le declinazioni mi sembrano due: l’Italia è una nazione capitalistica come le altre e quindi le sue eventuali anomalie non ci interessano più di tanto. La seconda suona più o meno così: noi siamo internazionalisti e quindi l’idea di nazione ci è estranea o quasi, tanto più nell’epoca della globalizzazione in cui gli stati nazionali contano sempre meno.

 

Laggiù, Makkox, 29 gennaio 2011, tratta da ilPost.itTale senso comune, nel quale credo ci siamo imbattuti tutti e anche talvolta ne sentiamo il richiamo, è per me una delle ragioni (non l’unica naturalmente) per cui non si riesce a fare un’analisi seria del quasi ventennio berlusconiano, né a comprendere bene perchè, pur avendo il centro-sinistra vinto le elezioni per due volte, questo non ha lasciato praticamente alcuna traccia. Questo senso comune diffuso ci dice una prima cosa: che le riflessioni Gramsci, il suo pensiero profondo e assai articolato, su passaggi chiave della storia d’Italia e in primis sul Risorgimento, sono dalle forze della sinistra attuale in tutte le sue componenti, diventati totalmente estranei, dimenticati del tutto o confinati all’interno degli studi dell’Istituto che porta il suo nome.

L’insieme di tutte le sfaccettature dell’anomalia italiana ci dà secondo me una rappresentazione folkloristica di questa anomalia, ma specialmente acefala, priva di prospettive. Quando a farsene portavoce sono poi esponenti politici come D’Alema e lo stesso Bersani in alcuni momenti, ciò che si evince è un pensiero più o meno di questo tipo: l’Italia sarà un paese civile quando assomiglierà del tutto agli altri paesi occidentali. Da questo pensiero è scomparso qualsiasi orizzonte di cambiamento. L’anomalia italiana, così autoalimentata fino a diventare senso comune, si traduce in qualcosa di indefinibile che genera sentimenti di frustrazione e basta.

Vorrei provare a smontarla a partire non da quello che distingue il periodo belusconiano dalle altre leadership occidentali, ma da ciò che invece le accomuna, per poi proporre un ritorno a Gramsci.

A grandi linee, la fase politica inaugurata da tutte le leadership occidentali dopo la caduta del muro di Berlino, ma anticipata da Reagan e specialmente dalla Thatcher, è fondata su tre assiomi utopistici (per dirla con Jameson), ma che hanno in parte funzionato e da alcune conseguenze abbastanza logiche derivanti da questi assiomi:

1. La società non esiste, esistono solo gli individui.
2. Le organizzazioni di massa a cominciare dal sindacato, devono essere drasticamente ridimensionate nella loro capacità contrattuale e di azione collettiva.
3. La politica è un male necessario che va ridotto il più possibile attraverso processi di accentramento sovranazionale delle decisioni che contano e conseguente espropriazione di sovranità e di controllo democratico da parte dei parlamenti nazionali.
4. Smantellamento dell’apparato produttivo statale e sua privatizzazione. 
5. Sdoganamento della guerra (ribattezzata in varie forme edulcorate), come soluzione dei conflitti internazionali, dopo la fine della guerra fredda e il cosiddetto equilibrio del terrore.

 

Rispetto a questi grandi linee di azione politica i governi italiani, tutti, non si sono comportati in modo sostanzialmente diverso da tutti gli altri governi occidentali.

 

Quanto ai partiti, la riduzione del ruolo della politica è stata accettata da tutti, seppure con soluzioni  diverse. Al partito-consiglio di amministrazione di Berlusconi, Il pds occhettiano ha risposto con lo smantellamento delle strutture tradizionali del partito, con Veltroni è approdato alla ‘teoria’ del partito snello, fino al mito delle primarie, che sostituiscono alla militanza organizzata e quotidiana, la mobilitazione dei comitato elettorali, che finisce non appena sono finite le elezioni. Quanto agli altri spezzoni dell’ex Pci, non hanno fatto altro che dilaniarsi in scontri di apparati.

Se c’è una prima anomalia importante da constatare, nei tempi ravvicinati, è semai che il maggior partito comunista europeo, è il solo della sinistra del vecchio continente che, dopo la caduta del muro di Berlino, abbia marciato da subito nella direzione di un distacco da tutte le tradizioni del movimento operaio europeo, scegliendo come modello di riferimento il partito Democratico americano.

 

Torniamo alle grandi linee di azione dei paesi occidentali. Sono gli effetti di questa politica a essere diversi da stato e stato, nazione e nazione, ma questo non dipende dai governi, ma da fattori storici di lunga durata.

 

Su un sistema capitalistico come quello italiano, storicamente debole nella sua capacità di ricapitalizzarsi senza l’intervento dello stato, con un sistema bancario arretrato che ci protegge dalle crisi finanziarie (come era avvento anche nel ‘29) ma che agiva tramite Mediobanca come una specie di governo-ombra, questo programma non poteva che avere effetti più devastanti che non su altri stati. Questo, se da un lato rende ancor più incomprensibile la totale adesione della parte più consistente della sinistra a un disegno del genere, dall’altro ne accentua ulteriormente gli effetti, dal momento che in Italia questo disegno ha incontrato pochi contrasti da parte delle forze sindacali (CGIL compresa), a differenza di altri paesi dove infatti si sono raggiunti equilibri diversi anche per questo. Il risultato è che quel tenue, labile senso dello stato che il Pci e persino la Democrazia Cristiana bene o male avevano costruito dal ’45 in poi, è stato disperso nel giro di pochi anni, lasciando il campo libero al ‘richiamo della foresta’, cioè al ritorno in grande stile di tutti i mali antichi della società italiana, alle sue contraddizioni e ai problemi irrisolti, indicati lucidamente da Gramsci alcuni decenni prima.

  1. La dissoluzione della Dc e la vera e propria rotta dei cattolici democratici dopo l’assassinio di Aldo Moro, ha spinto passo dopo passo la gerarchia cattolica a fare politica in proprio o attraverso Comunione e Liberazione (Il Vaticano e l’Italia).
  2. Il sovversivismo delle classi dirigenti italiane, tenuto a bada durante la guerra fredda, riesplodeva in forme virulente senza trovare un vero argine nella sinistra in rotta, dando vita due formazioni profondamente diverse: Forza Italia come partito degli affari, dell’antipolitica e della fine delle ideologie, la Lega come partito territoriale identitario, anti globale e anti europeo, ma con un progetto assai ambizioso, che non è stato colto subito: togliere la foglia di fico dalle nudità del Risorgimento, andando cioè alla radice della fragilità dello stato e della nazione italiana, rovesciando il discorso di Gramsci sulla incompiutezza del risorgimento italiano che poteva essere colmata solo con l’alleanza fra operai del nord e contadini del sud, mediata dalla presenza del partito comunista, proponendo al suo posto l’alleanza fra gli antiunitari del nord e del sud, rinfocolando i sentimenti anti garibaldini e specialmente antisabaudi e neoborbonici, latenti al sud come era latente al nord il sentimento razzista nei confronti dei meridionali e cavalcando ovviamente tutte le nuove forme di razzismo come collante ideologico dei suoi referenti sociali.

 

Aldo Marchetti:

Mi sembra che l'osservazione principale circa la incapacità di fare i conti con la nostra storia non sia stata esplicitata nella riflessione di Franco, o meglio sia contenuta nell'intero suo scritto (in qualche modo si è distribuita in tutto il suo ragionamento). Condivido in gran parte la sua analisi. In particolare sulla incapacità di fare i conti con la storia avevo già detto qualche cosa quando ci siamo visti. Sulla analisi in generale vorrei dire questo.

 

a) Le trasformazioni che sono avvenute nel corso degli ultimi trenta anni sono, ritengo, assai profonde (Le vediamo ma quanto riusciamo a cogliere della loro importanza?): la ristrutturazione dell'industria e dell'intera economia; la globalizzazione; il crollo delle ideologie politiche ottocentesche, i processi di individualizzazione-personalizzazione, i nuovi processi migratori. Franco parla di alcuni assiomi (la società non esiste, le organizzazioni di massa devono essere ridimensionate ecc) ma questi cambiamenti non sono solo il frutto della lucidità del Capitale  (non sono il piano del Capitale) sono il portato dell'azione di tutte le forze che hanno agito nel corso  degli ultimi decenni, compresi i sindacati e i partiti di sinistra (per fare un esempio la società dei consumi e l'individualizzazione sono tanto la conseguenza delle strategie di mercato quanto delle strategie sindacali di riduzione dell'orario e di aumento dei salari, di estensione della scolarità). Questo complica credo il quadro interpretativo.

 

 b) Mi pare che ci sia una continuità tra i movimenti sociali del secolo scorso e i bisogni sociali ancora presenti (Mario Capanna nei suoi ultimi scritti cerca Locandina del film Noi credevamo, di Mario Martone, 2010proprio di dimostrare questa tesi). I bisogni di giustizia, eguaglianza, rìconoscimento delle differenze, integrazione, lotta contro la povertà, salvaguardia della natura, bisogno di socialità e affabilità, sono tutti intatti (sono le cose che ho cercato di mettere in evidenza nello scritto su Tolstoj). A crollare è stata buona parte dell'ideologia vecchia ma non i bisogni veri su cui le ideologie sono nate tra il 700 e l'800. Questo non significa buttare via le ideologie che hanno rappresentato delle risorse enormi ma usarle cum granu salis. In questa ottica ogni pessimismo è fuori luogo.

 

c) Sulla attuale fase in Italia ripeto quello che forse ho già detto e che dice, mi pare, anche Franco. Il comunismo e il cristianesimo sociale per mezzo secolo si sono battuti l'uno contro l'altro e allo stesso tempo si sono sostenuti a vicenda. Hanno sviluppato una pedagogia sociale che in minima parte ha funzionato. Hanno mobilitato una grande quantità di risorse intellettuali che su fronti opposti avevano tuttavia valori forti che trasmettevano alla società. Hanno tenuto sotto controllo gli impulsi più profondi e atavici delle società italiana. Se si vuole hanno steso un velo pietoso sui vecchi mali italiani. Il loro crollo ha scoperchiato i sepolcri. La lega rappresenta il vecchio particolarismo (Bisogna aggiungere che se portassimo a fondo l'autonomia del Nord vedremmo ben presto scoppiare le più sanguinose risse tra i comuni e le regioni del Nord) così come Forza Italia (ed epigoni) rappresenta l'antico qualunquismo. Si rinnovano il primo sotto la spinta della paura della globalizzazione e della immigrazione, il secondo sotto la spinta dell'individualizzazione e della perdita del senso sociale (cosa che avviene un pò dovunque e anche negli Usa, patria dell'associazionismo, come hanno documentato Putnam e altri). Acquistano quindi nuove caratteristiche, compresa quella di una allegra e carnascialesca irresponsabilità, rappresentata antropologicamente da Berlusca e ben gradita a buona parte del popolame catodico.

 

d) Ritengo che il vero "male oscuro" della società italiana sia l'indifferenza morale nella cosa pubblica e più in generale la completa separazione tra principi etici dichiarati e le pratiche pubbliche e private più in uso. Da questo punto di vista il comportamento morale nella vita collettiva è un'eccezione e viene considerata, nel senso comune, come una perfetta anomalia. In un certo senso si ha un rovesciamento dei valori: è riprovato socialmente il comportamento onesto mentre viene approvato quello disonesto. È una cosa del tutto nota. Ripeto una banalità. Ma le vicende recenti costringono a ragionare nuovamente su questo fenomeno. Non è detto che le cose banali per questo siano le meno rilevanti. Vale sempre la pena credo ragionarci.    

 

Franco Romanò:

Riprendo alcuni passaggi del mio intervento iniziale per chiarirli meglio, anche alla luce di quanto scritto da Aldo.

Non ho mai parlato o scritto del cosiddetto piano del capitale, espressione che mi è estranea da sempre. Gli assiomi che ho ricordato vengono tutti dal mondo politico, sono slogan usati dai leader politici occidentali, ma nascono anche da una riflessione più ampia, sia in campo economico (scuola di Chicago), sia in campo politico-filosofico: mi riferisco in questo caso all’importantissimo convengo che si tenne a Rimini o a Riccione nel 1985 – se non ricordo male e mi riprometto di verificarlo – dal titolo quanto mai significativo: “Come riportare il Principe al governo dell’Europa.” Quando affermavo, e lo ribadisco, che tutte le leadership occidentali hanno accettato e fatto propri questi assiomi, parlavo anche dei governi di centro-sinistra e dei sindacati. L’accettazione pura e semplice della ricetta neoliberista è stata prima di tutto un comportamento politico, sotto certi aspetti incomprensibile, ma plebiscitario: solo in Germania si è cercato parzialmente di seguire una strada diversa e infatti i risultati si vedono.

Del resto, Edward Luttwack, che credo abbia una qualche autorevolezza in materia, in un’intervista recente ha affermato testualmente che tutti i governi occidentali, compresi quelli D’Alema e Prodi  sono stati ottimi governi con i quali l’Amministrazione statunitense non ha avuto alcun problema. Più chiaro di così!

Naturalmente questa abdicazione della politica, la rinuncia a qualsiasi orizzonte di cambiamento in nome di un’idea di società, una qualsiasi ma una, ha portato oggi a una generale incapacità della politica di recuperare terreno, per la semplice ragione che si è tolta da sé gli strumenti per poterlo fare e una volta persi, recuperarli non è affatto facile. La cosiddetta speculazione dei mercati è totalmente indifferente alle vicende politiche interne, colpisce stati come l’Irlanda di grande stabilità politica, o lo stesso Portogallo, come altri perché si muove in un campo dove sa che non può trovare contrasto, se non grazie e misure che di politico hanno pochissimo: come per esempio, l’acquisto da parte delle banche centrali dei titoli degli stati in difficoltà, misura che rimanda semplicemente e amplifica la portata della crisi successiva.

Certi esiti non sono voluti, ma sono la conseguenza diretta dell’abdicazione della politica: i cosiddetti mercati (espressione assolutamente metafisica), non vogliono di per sé nulla, ma se continua l’attacco alla zona euro e la politica europea continua a essere inesistente, è persino possibile che questo porti alla fine dell’Euro (lo ha detto Visco, lo hanno ripetuto altri di sicuramente politici diversi), come conseguenza; non di un piano del capitale, che non è mai esistito, ma della selvaggia e incontrollata espansione della sua logica anarchica intrinseca.  

Non sono invece d’accordo nel considerare il Pdl la versione attuale del partito dell’Uomo qualunque di Giannini e tanto meno la Lega Nord come riedizione del tradizionale particolarismo italiano. Machiavelli e Guicciardini in questo secondo caso non c’entrano. La Lega è paradossalmente il solo movimento politico italiano che non abbia rinunciato alla politica e riesca a incarnare tale convinzione in azioni che hanno un certo respiro strategico: altri lo vorrebbero fare ma non ci riescono perché hanno un’idea del tutto astratta della società in cui vivono (parlo della sinistra diffusa e non del Pd che considero un partito inventato senza alcun respiro, ma solo l’aggregazione di due nomenclature parziali e minoritarie), altri come Fini e i finiani lo hanno capito troppo tardi, altri ancora (di nuovo a sinistra) lo esprimono attraverso i movimenti e le organizzazioni sociali, che hanno un grande ruolo positivo anche di crescita di nuove sensibilità politiche ma che non approdano ancora a un disegno.

Prima di tutto la Lega Nord nasce in buona parte da una costola del vecchio Pci e non dal blocco sociale conservatore: non si capirebbe il fenomeno assai diffuso delle doppie tessere (Fiom-Lega nord); si badi bene: Fiom- Lega nord, nemmeno genericamente Cgil, ma la parte socialmente e sindacalmente più attiva forte e resistente della Cgil stessa. La Lega si radica come partito localistico e razzista perché capisce che se vuole crearsi una base politica deve rivolgersi a ceti sociali passivi, che hanno subito gli anni ’70 in silenzio e ai margini della lotta politica. Una volta fatto questo, però,  coagula intorno a sé un sentimento anti globalizzazione diffuso, di critica alla burocrazia di Maastricht, la salvaguardia della piccola industria del nord est, proponendosi con e il cane da guardia anti immigrazione. La Lega è un partito reazionario di massa, territoriale, antieuropeista, che ha saputo fare proprie (distorcendole), alcune istanze della sinistra stessa, facendo breccia in settori importanti e di punta dello stesso movimento operaio, delusi dall’otto settembre occhettiano. È una vicenda, questa della Lega, che ricorda assai da vicino anche fenomeni passati: si legga a questo proposito il bel libro di Pennacchi, intitolato Canale Mussolini.

Infine la Lega si pone anche come partito ‘nazionale’ della revisione del processo storico unitario italiano, cui per il momento tutto il resto della cultura politica italiana contrappone o il silenzio, oppure la retorica; fra l’altro certi spot televisivi sono a mio avviso un involontario spot per i leghisti.

Credo che per rispondere davvero alla Lega, se lo si vuole fare, bisogna agire a molti e diversi livelli, con un respiro strategico, che sappia tenere insieme tutto l’arco delle questioni, a cominciare (o a finire) da-con quelle che sembrano marginali come per esempio la revisione del processo risorgimentale. Per ora mi fermo qui, anche perché il dibattito deve arricchirsi. Ovviamente sono ben cosciente di non aver detto nulla sul Pdl, aggiungo solo che più che non il partito di Giannini, mi sembra un aspetto particolare del sovversivismo delle classi dirigenti italiane, della loro storica e criminale mancanza di senso dello stato. 

 

Paolo Rabissi:

…come spesso accade cerchi una cosa e ne trovi un’altra. Gli interventi di Franco e Aldo sull’anomalia italiana mi hanno aperto più interrogativi di quanto pensassi.

Tanto per cominciare non è di poco conto quanto avete detto sul fatto che Bersani e D’Alema hanno ormai deciso che l’Italia sarà un paese civile quando assomiglierà agli altri paesi occidentali, superando cioè la sua anomalia: una delle frasi politicamente più inconsistenti e senza alcun significato. Significa davvero condannare il proprio progetto politico al nulla. E direi addirittura anche capace di vanificare il nostro dibattito. Perché se seguiamo il ragionamento con coerenza finiamo col dover ammettere che in realtà l’Italia non è un paese con particolari anomalie.

L’Italia è infatti tutt’oggi la settima potenza capitalistica al mondo (è stata addirittura la quinta per un certo decennio): su ciò le fonti concordano tutte ma a nessuna di esse verrebbe in mente di sostenere che i paesi capitalistici si assomigliano tutti. Tralascio le ormai note distinzioni tra capitalismo americano, giapponese, tedesco ecc. senza rinunciare appunto a considerare un capitalismo tipicamente italiano (la piccola e media industria, ecc.). Quello che voglio dire è che ci sono parametri ben collaudati e comunemente accettati secondo i quali, pur in presenza di peculiarità nazionali di sviluppo, i paesi vanno considerati capitalistici. Uno su tutti: la produzione del PIL. L’Italia è a buon diritto un paese capitalistico perché il suo PIL è per tre quarti prodotto da attività del terziario (compresi finanza, commercio, turismo  ecc.), l’industria in senso stretto è al 20 %, l’agricoltura addirittura al 2,5%, l’edilizia al 5%.

Questi sono i cambiamenti epocali che Aldo richiama e che sono avvenuti negli ultimi trenta quaranta anni presso di noi!

Tanto anomali mi sa che non lo siamo proprio!

La condizione umana, René Magritte, 1933, Olio su tela, Washington, National Gallery of Art

Ma da Adriana, che pure consente a questo ragionamento, una differenza che magari possiamo considerare un’anomalia mi arriva: l’Italia è il paese che si colloca tra quelli, come Romania e non so chi altri, che hanno la più alta percentuale di evasione fiscale: il 54%!!!

Insomma siamo la settima potenza industriale nonostante questo dato impressionante! Ma non so se questa vada davvero considerata un’anomalia o qualcos’altro.

 

Franco Romanò:

Solo una brevissima precisazione che è anche una conferma. Rispetto a quello che dice Paolo e che condivido, aggiungo soltanto che ritengo largamente errata la definizione corrente di anomalia italiana e infatti ho scritto che, se essa esiste, va definita dopo e soltanto dopo che si sono indicate tutte le consonanze con gli altri stati capitalistici, come del resto ho detto anch’io nel mio intervento. Alla indicazione di Adriana che l’enorme evasione fiscale è un tratto di questa anomalia, aggiungo quello del rapporto fra economia criminale, economia legale e politica.  

 

Paolo Rabissi:

Aggiungo qualche spunto un po’ marginale di riflessione.

  1. So bene che negli anni settanta è stata calcata la mano sul concetto di piano del capitale. Era tutto sommato necessario per battere concezioni spontaneistiche e miracolistiche dell’economia italiana. In ogni caso continuo a credere che un piano il capitalismo occidentale, euroamericano, l’hanno più recentemente e consapevolmente messo in essere eccome. Come ne accenna del resto Franco: Tatcher e Reagan certamente, ovvero le lobbies che trovarono in loro i giusti portatori di sistema. Non starò qui a elencare i caratteri del piano, li conosciamo tutti, sono quelli che sia Aldo che Franco enumerano come caratteri appunto del capitalismo contemporaneo. Quando l’iniziativa, che non era solo economica ma anche politica e culturale, è stata scatenata l’URSS era già alle strette ed è finita ko. Il mondo occidentale, che cominciava ad uscire dal fordismo e che dava inizio alla terza rivoluzione industriale con l’informatica e la digitalizzazione della nostra vita, aveva bisogno di una massa crescente di addetti ai servizi e possibilmente di servi se non schiavi nelle fabbriche rimaste.
  2. Occorre credo aggiungere subito che il piano era delle multinazionali, cioè dei paesi ricchi. Non che il capitalismo italiano non fosse uno di questi ma era e resta senz’altro uno dei referenti meno credibili per via della sua struttura disseminata.  Ma è difficile per me dire che il PDL non rappresenti comunque la versione partitica italiana di quel piano, che si va affermando faticosamente più che altrove per il fatto che il lascito della lunga stagione di lotte operaie e proletarie, quella cioè che  a me sembra l’unica anomalia vera dell’Italia, continua a rendere difficile la transizione alla ‘normalità’. Quel lascito ha ad esempio garantito la possibilità di battere Berlusconi ben due volte con Prodi.
  3. I cassintegrati e i licenziati dalle fabbriche del fordismo hanno aperto una partita IVA e vivacchiano. Quelli rimasti in fabbrica conducono tuttora forse l’ultima lotta dell’epoca per tentare la salvaguardia dei diritti conquistati. Ma si tratta, mi sembra, di una popolazione piuttosto anziana. Che magari vota Lega pur stando nelle file dei sindacati sinistra. Ma i giovani, che perlopiù nelle vecchie fabbriche non vanno e che affollano invece i call-center, i servizi in generale, e che alla pensione non pensano più, che tipo di antagonismo nuovo sono in grado di esprimere?

 

 

Laura Cantelmo:

Mi sono chiesta più volte se davvero esista l'anomalia italiana. E' una domanda che sorge nel momento in cui ci pare di assistere a un immeritato  crollo di idee e di valori in cui avevamo creduto. Ciò risulta particolarmente avvilente in una fase storica in cui ci troviamo di fronte a un declino delle libertà  edello stato sociale conquistati in passato,  in una con tinua assenza di una reale vita politica che rende vana ogni speranza di progresso, anzi, pare decisamente orientata verso una decadenza inarrestabile.

 Decadenza che non mi pare molto diversa da quella cui assistiamo negli altri stati dell'Occidente. Pensiamo al Regno Unito, il cui lo stato sociale è solo l'ombra di quello che era in passato, dove l'università, come avveniva più di un secolo fa, resterà riservata a una élite di benestanti, grazie all'aumento vertiginoso delle tasse. E questo è soltanto un esempio.

Ciò che il nostro paese sta vivendo, grazie alla persistenza  del clientelismo favorito da  una classe politica di infimo livello, ignorante, corrotta, collusa spesso con la criminalità organizzata, eletta grazie a una legge truffa, che ci rende impresentabili all'estero,credo che altro non sia se non l'effetto di un deterioramento dei rapporti tra cittadini e istituzioni e  degli stessi rapporti  interpersonali, che tuttavia non si registra solo in Italia. L'effetto, non la causa. E' come se la degenerazione a cui la società occidentale è condannata avesse dato i suoi frutti in un paese già eticamente fragile.

Lo sgretolamento dell'idea di società, la conseguente crescita dell'individualismo, la spettacolarizzazione della politica ,  e un degrado spaventoso del mezzo televisivo hanno generato un torpore nella popolazione più sprovveduta, consentendo di accedere alle più alte cariche a un personaggio come l'attuale Presidente del Consiglio.  Il quale ha aggravato la situazione del paese, interessandosi quasi unicamente dei propri problemi di carattere economico e giudiziario, abbandonandolo a una deriva devastante.  Tutto ciò è stato reso possibile anche grazie alla aperta connivenza e al sostegno del Vaticano.

Ecco, quindi, emergere un aspetto importante specificamente italiano: la funzione della Chiesa ufficiale, da sempre alleata dei governi più retrivi, e la propensione  della popolazione ad affidarsi al populismo di duci e ducetti, pronti a cancellare quanto faticosamente conquistato in passato.

Sento in questi giorni amarissimi in cui , con il caso FIAT, stiamo andando verso l'annientamento della rappresentanza sindacale, che quanto chiamano "modernità" altro non è che la rivincita di un capitale cinico e vorace, questa volta non solo italiano, che segue le linee della globalizazione.

There is no alternative, ci viene detto a ogni piè sospinto: questa la brillante idea espressa da un personaggio come la Thatcher -che ho difficoltà a considerare  appartenente al genere femminile - e dal suo squallido alleato Ronald Reagan. In Italia tutto ciò ha un aspetto più volgare, perché tale è gran parte della classe dirigente, e avvilente soprattutto in assenza di un'opposizione reale, rispetto a quanto avviene in Germania, ad esempio.

Ma si tratta pur sempre  di un contesto entro cui  si consuma un cambiamento epocale comune a tutto l'Occidente. e allora mi chiedo se, considerata la specificità della realtà italiana, la nostra sia davvero una anomalia o non semplicemente il declino di un'epoca, che in ogni stato occidentale ha le sue caratteristiche. 

Sotto i nostri occhi si sta lentamente sgretolando tutto quanto faceva dell'Occidente il motore del progresso economico, delle democrazie liberali, dei diritti.

Come dice Paul Ginsborg, nessun popolo al mondo direbbe mai di "vergognarsi" di appartenere al proprio paese, come invece fanno gli italiani. Eppure nessun altro paese ha veramente da essere orgoglioso della propria condizione attuale e della propria storia. Pensiamo alla Gran Bretagna, alla Germania (che starà meglio di noi, ma ancora si vergogna del proprio passato), alla Francia che canterà sempre a squarcagola gli inni della propria grandeur anche se si troverà nel guano fino al collo. Gli Stati Uniti, la cui crisi non ha intaccato l'orgoglio nazionale,  pur continuando a porsi (con successo) come fulgido esempio di democrazia, è uno stato che esclude i più deboli perché "perdenti" e offre ponti d'oro a chi è più fortunato.

E' vero: siamo un popolo che purtroppo non ha fatto i conti con la propria storia  (ma, al di là della Germania, chi altro li ha fatti?) e si  assolve definendosi "brava gente". 

Esistono tuttavia in Italia alcuni aspetti che testimoniano di un passato recente che dava aditoa a una speranza di reale progresso umano e di integrazione dei più deboli (cito a caso): la psichiatria (tra mille difficoltà) continua a mantenere livelli molto avanzati, partorire è ancora un'esperienza ampiamente tutelata (provate a partorire nel Regno Unito), la scuola aveva eliminato le classi differenziali e si spera che, nella devastazione attuale, non torni a ricrearle.

L'anomalia sta forse nel non difendersi efficacemente dalla violenza distruttiva dei governi di questi anni. (ma questo è un problema politico. Guardiamo come la FIOM si èmossa in una scandalosa  solitudine, senza sponde politiche, a difesa di diritti elementari).

Mi chiedo, allora: ma esiste davvero l'anomalia italiana?. Preferisco quindi parlare di specificità: anomalia è un termine implicitamente negativo.

Siamo un popolo "incivilissimo", (ma davvero lo siamo?) eppure ricco di risorse. Forse qui sta la nostra anomalia? Nel non saperle sfruttare adeguatamente?