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Un libro di Bellocchio - pag. 5 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
Un libro di Bellocchio
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pag. 4
pag. 5
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pag. 7
Tutte le pagine

4. «Come il vincitore scrive la storia, cosi fabbrica l'opinione». Que­sto si legge in Chi perde ha sempre torto, che poco sopra annotava:

Dobbiamo prendere atto che in questi anni s'è stabilita una nuova "verità". Una "verità" globale, su passato, presente, futuro. Per quanto riguarda il '68, questa verità sentenzia: il movimento di contestazione giovanile è stato puramente e semplicemente la matrice, il terreno di cultura del terrorismo; ovvero, il terrorismo è il frutto, naturale e inevitabile, di quel seme22.

 

La fabbricazione della "doxa" richiede pazienza e mezzi, ma può disporre di una capacità di penetrazione cosi potente da produrre il naturale, il globale e l'inevitabile come attributi dell'assioma spaccia­to per verità. Contro questa naturalizzazione del falso, cosa può un libro di duecento pagine che nel migliore dei casi sarà venduto in qualche migliaio di esemplari? Pochissimo, certo; ma potrà sempre darsi qualcuno interessato al nostro «passato, presente, futuro» che abbia perciò voglia di scavare oltre (anzi sotto) il muro degli assiomi prefabbricati. Per quello scrive Bellocchio. Il quale ripercorre le vi­cende del processo a «Lotta Continua» e degli avvenimenti in esso coinvolti, non tanto per un’arringa a favore di Sofri quanto per met­tere in luce la mostruosità, insieme tragica e farsesca, dei meccani­smi attuati per coprire uno scandalo, l’assassinio di Pinelli, la cui ingiustizia era stata percepita immediatamente non solo dal movi­mento di cui «Lotta Continua» era espressione, ma da una parte significativa della «borghesia avanzata23» (per una percezione di tipo analogo, in Spagna dopo gli attentati di Madrid del 2004, la reazio­ne popolare decretò la fine di Aznar). Si noti che le venti pagine di Chi perde ha sempre torto (solo quelle dedicate a Pasolini sono in maggior numero) recano in epigrafe un passo dell''Ecclesiaste (13, 3:«II forte spesso commette ingiustizia, / poi grida come se fosse lui l'offeso. / II debole subisce, e deve chiedere anche perdono») e si concludono con un richiamo a Rabelais (autore il cui influsso su Bellocchio andrebbe analizzato a fondo24): la cornice delle citazioni ha l'effetto di disporre la minuziosa rivisitazione dei passaggi che hanno portato a una condanna esemplare (per la criminalizzazione del "movimento") entro una prospettiva di lungo periodo che — si diceva all'inizio - presuppone una visuale "dal basso". Ecco allora che anche i tanti personaggi che sfilano nel saggio — i magistrati, i pentiti, i vari Scalfari, Zavoli e tanti altri — trovano la loro giusta dimensione, una lente che li collochi al loro posto, figuranti di una parata per un copione predisposto «tra Molière e il Grand Guignol» (come dice il Pasolini citato altrove da Bellocchio25).

In base a quest'ottica e con l'occhio fisso al particolare, La guerra in francobollo si occupa di decifrare la mistificazione filatelica della storia: il pezzo ha un rilievo paradigmatico, a mio avviso, proprio in quanto ricostruisce a partire da ciò che è per definizione minuscolo un'operazione tanto abnorme quanto significativa del rapporto che il paese "ufficiale" (la "nazione" nel suo aspetto istituzionale e nei suoi ranghi dirigenti) intrattiene con la propria storia. I campi di concentramento, Anzio e Nettuno, Roma città aperta..., tutto nell'allegoria postale di una nazione immemore subisce un trattamento equivoco e elusivo, un depistaggio. C'è qui una eco, magari, dei Miti d'oggi di Barthes, per l'abilità nella decostruzione degli ingannevoli micro-scenari in cui la storia è condensata e resa irriconoscibile, ma c'è anche e soprattutto la cognizione esatta del fine a cui tende il lavoro degli ignoti sceneggiatori: «II senso profondo di tutta la se­quenza è (vuole essere) uno solo: non è successo niente. 26» Mistificazio­ne, quindi, non è il termine esatto: nelle scelte e nelle omissioni della serie di francobolli, il cui «squallore grafico», osserva Belloc­chio, «fa tutt'uno con la miseria culturale, politica, morale» che ispira il manufatto, emerge un'intenzione ben più profonda, la cancella­zione del senso di avvenimenti che a loro volta erano l'esito di scelte, interessate omissioni e mistificazioni (quelle si) per le quali persero la vita milioni di donne e uomini. Non è successo niente: un'ingiunzione, o una rassicurazione? Tutt'e due le cose, forse. L'importante è la narcosi, lo stato confusionale in cui va persa la nozione stessa delle parti in conflitto, degli interessi in gioco, dei diversi valori e fini che orientavano l'agire e della diversa posizione di chi decideva e di chi le decisioni subiva (e cosi oggi, che viviamo tutti in un brutto fran­cobollo). Per questo, dietro la rassicurazione c'è un'altra affermazio­ne, meno rassicurante, anzi minacciosa, che Al di sotto della mischia vorrebbe senza dirlo scongiurare: tutto quindi può ancora ripetersi.

Sempre la storia, e la sua manipolazione, sono al centro di Perché Mussolini perse il potere?, e anche qui la contestazione di Bellocchio colpisce i luoghi comuni e l'uso di generalizzare cancellando la real­tà. La sua polemica non è svolta per nulla in astratto, bensì a partire da dati di fatto concreti, inoppugnabili ma quasi sempre trascurati. Allo storico che parla della «grande maggioranza degli italiani che durante il regime avevano assicurato il consenso a Mussolini» e che «glielo rifiutarono nel 1943 perché il progetto di una guerra breve e vittoriosa si era dimostrato un inganno», Bellocchio ricorda che a quell'epoca «la "grande maggioranza" del paese era del tutto esclusa dalla possibilità, non già di esprimerla, ma di formarsela, un'opinio ne. La "grande maggioranza" viveva a un livello pre-politico27». È, questo dell'autore, un modo per far parlare una zona silenziosa, in­visibile, senza storia: quindi per non espropriarla una volta di più. Il pezzo va letto insieme a "Pensare in grande", che prende spunto non da un libro ma da un incontro casuale in treno, e arriva poi alla sua conclusione in contrappunto ad un'altra di quelle micidiali banalità di cui è infarcito il "discorso pubblico" sulla storia patria. In un dibattito televisivo (ovviamente bipartisan) all'«intellettuale di orien­tamento fascista» è fatto osservare che l'Italia venne gettata del tutto impreparata in guerra: «Quando si pensa in grande, si fanno anche grande errori», egli risponde. Commento di Bellocchio:

 

Dove era implicito che "pensare in grande" è comunque un pregio e gli errori, se "grandi", diventano nobili. E quindi Mussolini è stato un "grande politico", dato che "pensava in grande"... Il contenuto concreto di questi "grandi pensieri", se cioè erano pensieri buoni o cattivi, giusti o sbagliati, se si trattava di pensieri o non invece di sogni o deliri, il sangue e le sofferenze che erano costati... tutto ciò è secondario. Applicando un normale metro umano alle scelte del Duce, la conclu­sione non è dubbia: un criminale. E anche un coglione. Anzi (Grandeur oblige): un grande criminale e un grande coglione28.



 

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