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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag. 8 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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D. Un recente rapporto del National Intelligence Council ha previsto la fine del nostro dominio globale per il  2025 e il sorgere di un mondo  più frammentato, multipolare, più conflittuale. Pensi che il capitalismo come sistema mondiale richieda , come condizione di possibilità,  una potenza egemone unica? L’assenza di una potenza equivale necessariamente  a un caos sistemico instabile  - è impossibile un equilibrio tra  potenze di peso quasi uguale?

 

R. No, non direi che è impossibile. Molto dipende da quanto e fino a che punto l’incombente potenza egemone  accetti un compromesso oppure no. Il caos degli ultimi  sei o sette anni si deve alla reazione dell’Amministrazione Bush  all’undici settembre, che sotto un certo punto di vista è stato un caso di suicidio di una grande potenza. E’ molto importante il comportamento della potenza  in declino, perché  è capace di creare caos. Tutto il “Progetto per un nuovo secolo americano”  è stato un rifiuto di accettare il declino, ed è stato una catastrofe. C’è stata la sconfitta militare in Irak e la conseguente  tensione finanziaria relativa alla posizione degli USA nell’economia mondiale che ha trasformato questo paese da creditore nella nazione più pesantemente indebitata della storia mondiale. La sconfitta in Irak è più grave di quella del Vietnam, poiché in Indocina c’era una lunga tradizione di guerrilla: avevano un capo  del calibro di Ho Chi Minh e avevano già sconfitto i francesi. Per gli americani in Irak la tragedia è che, anche nelle condizioni  migliori,  sarà ben difficile che vincano la guerra e ora stanno cercando di uscirne in qualche modo salvando la faccia. La resistenza che hanno opposto al compromesso  ha portato, prima di tutto, a un’accelerazione del loro declino  e poi molta sofferenza e grande caos.  L’Irak è un disastro. La quantità di profughi è molto superiore a  quella del Darfur.

Non si capisce bene che cosa voglia fare Obama. Se pensa di poter ribaltare la situazione di declino avrà delle brutte sorprese.  Quello che  può fare è gestire con intelligenza il declino – vale a dire, cambiare la politica da “Noi non trattiamo. Vogliamo un altro secolo” a una di declino di fatto, individuando delle politiche  che si adattino al cambiamento nei rapporti internazionali. Non so se si comporti così perché è molto ambiguo, oppure perché in politica certe cose non si possono dire, oppure  perché non sa cosa fare o perché è ambiguo e basta. Non lo so. Ma il cambiamento da Bush a Obama  offre davvero delle possibilità di gestire e manipolare il declino degli Stati Uniti in modo tale che non sia catastrofico. Bush ha avuto l’effetto contrario: la credibilità dei militari americani è  stata ancor più corrosa, la posizione finanziaria si è aggravata in modo disastroso. Perciò il compito che Obama si trova davanti adesso penso sia quello di gestire il declino in modo intelligente.  Questo può fare. Ma la sua idea di escalation in Afganistan è, a dir poco, preoccupante.

D. Nel corso del tempo, mentre il tuo lavoro si fondava sul concetto marxiano di accumulazione capitalistica,  non hai mai risparmiato critiche a Marx – la sua sottovalutazione delle lotte di potere tra gli stati, la sua indifferenza per lo spazio geografico, e, tra l’altro, le contraddizioni nell’affrontare il problema della classe lavoratrice.  Da molto tempo subisci il fascino di  Adam Smith, che occupa un ruolo centrale nel tuo lavoro più recente, Adam Smith a Pechino. Quali riserve nutri su di lui?

R. Le riserve sono le stesse che su di lui nutriva  Marx.  Marx ha tratto molto da Smith – la tendenza al crollo del tasso di profitto  sotto l’impatto  della concorrenza inter-capitalista, ad esempio, è un’idea di Smith. Il Capitale è un testo critico di politica economica: Marx criticava  Smith  per aver ignorato  quanto accadeva nelle segrete dimore della produzione – come diceva lui, la concorrenza inter-capitalista può ridurre il tasso di profitto, ma viene contrastata  dalla tendenza e dall’abilità dei capitalisti di  spostare i rapporti di potere con la classe lavoratrice a proprio favore. Da questo punto di vista  la critica di Marx alla politica economica di  Smith  era fondamentale.  Si deve comunque stare attenti al periodo storico, perché Marx era un teorico che assumeva posizioni che potevano corrispondere alla realtà storica di luoghi e periodi particolari. Noi non possiamo dedurre realtà empiriche da costruzioni teoriche. La validità della sua critica a Smith va valutata in base al momento storico. Ciò vale per Smith, per Marx o per chiunque altro.

 

D. Una delle conclusioni di Marx, specie nel Primo volume del Capitale, è che l’attuazione della teoria del libero mercato di Smith porta all’aumento delle diseguaglianze di classe. Fino a che punto l’attuazione del regime  smithiano a Pechino comporta il rischio di diseguaglianze di classe ancora più nette in Cina?

R. Nel capitolo teorico su Smith in Adam Smith a Pechino io sostengo che nelle sue opere non troviamo alcuna nozione sull’auto-regolamentazione dei mercati come nel neoliberismo.  La  mano invisibile è quella dello stato, che dovrebbe agire in modo decentrato,  con un minimo di interferenza burocratica. Sostanzialmente l’azione del governo in Smith è a favore del lavoro e non a favore del capitale. Dice  esplicitamente  di non essere favorevole a provocare competizione tra lavoratori  per ottenere  una riduzione dei salari, bensì per la concorrenza tra capitalisti  affinché si riduca  il profitto a un minimo accettabile che compensi il rischio. Le moderne teorie ribaltano totalmente  il suo pensiero.  Però non è chiaro dove voglia arrivare la Cina oggi. All’epoca di Jiang Zemin, negli anni ’90, andava certamente nella direzione di una competizione tra i lavoratori a favore del capitale e del profitto, su questo non vi sono dubbi.  Adesso si registra un’inversione di tendenza che, come ho detto,  tiene conto non solamente della tradizione della Rivoluzione e dell’era maoista, ma anche di quel tanto di  benessere della Cina tardo-imperiale sotto la dinastia Ching negli ultimi anni del XVIII e nel XIX secolo. Non scommetto sugli esiti della Cina, ma dobbiamo essere così aperti da saper vedere dove sta andando.

 

D. In Adam Smith a Pechino fai riferimento anche all’opera di Sugihara Kaoru  che contrappone una “rivoluzione industriosa”, ai primordi dell’era moderna  in Estremo Oriente, basata sul lavoro intenso e su di un saggio rapporto con la natura,  a una “rivoluzione industriale” basata sulla meccanizzazione e su di un utilizzo predatorio delle risorse naturali,  dicendo di sperare in una convergenza delle due tendenze per l’umanità futura. Secondo te a che punto si trova oggi l’equilibrio tra queste due tendenze in Estremo Oriente?

R. E’ un equilibrio molto precario. Diversamente da Sugihara non sono così ottimista da pensare che nella tradizione orientale la “rivoluzione industriosa” sia talmente radicata da tornare a essere dominante, o per lo meno abbia un ruolo importante  in qualsiasi tendenza possa emergere, per quanto ibrida possa essere.  Queste teorie sono più importanti per tenere sotto controllo quanto avviene  piuttosto che per dire “l’Oriente va in questa direzione , oppure gli USA vanno in quell’altra”. Abbiamo bisogno di vedere che cosa fanno realmente.  Si sa che le autorità cinesi si preoccupano dell’ambiente come dell’instabilità  sociale, però poi fanno cose assolutamente stupide.  Forse stanno elaborando un piano, ma non mi pare che vi sia sufficiente consapevolezza  del disastro ecologico provocato dalla civiltà dell’automobile.  Da questo punto di vista  è già stata una follia in Europa copiare gli Stati Uniti  e ancor di più lo è in Cina. Nel decennio 1990 e nel 2000 ai cinesi ho sempre detto  che andavano a visitare le città sbagliate.  Se vogliono vedere come si possa essere ricchi senza distruggere l’ambiente devono recarsi ad Amsterdam e non a Los Angeles.  Ad Amsterdam tutti vanno in bicicletta: alla stazione ci sono migliaia di biciclette parcheggiate per tutta la notte, dato che la gente arriva in treno, prende la bicicletta al mattino e la sera la riporta lì. Mentre invece in Cina, dove la prima volta che ci andai negli anni ’70 non esistevano automobili – c’era solo qualche autobus  in un mare di biciclette – ora le biciclette sono state per sempre mese da parte. Sotto questo aspetto il quadro è molto confuso, preoccupante e pieno di contraddizioni. L’ideologia della modernizzazione ha perso credito dovunque, ma fino ad oggi permane ancora in Cina, anche se in modo molto ingenuo.

 



 

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